martedì 8 dicembre 2009

Dinamiche del presente in Turchia. Dispaccio I. Il tutto sta nel molteplice.


Dopo quasi un secolo d’esistenza, la storia della Repubblica Turca non è stata ancora scritta. Allo stato attuale, vi sono versioni ufficiali degli avvenimenti occorsi dalla fondazione dello Stato nel 1923, ma oltre queste narrazioni un affollato coro di voci rifiutate preme per raccontare la propria versione dei fatti, o per ricordare eventi del tutto rimossi. Le ragioni di questo “oblio imposto” vanno ricercate nella retorica governativa che, a partire da Mustafa Kemal Ataturk (il “padre” della patria), ha costruito e imposto un’immagine della Turchia fondata sull’unità di lingua, di valori e di sforzi del popolo verso obiettivi comuni, nel tentativo di annullare le differenze in nome di una comune appartenenza alla Nazione Turca. Un concetto basato sulla nozione di “cittadinanza”, che nella sua applicazione pratica ha assunto connotazioni etniche pericolosamente totalizzanti. Sto parlando dell’Ataturkismo, o Kemalismo, l’”essere turco” come l’unica identificazione concessa e accettata e l’unico punto di vista storico diffuso a tutti i livelli del sociale, l’ideologia di Stato nella cui difesa ha avuto un ruolo importante l’esercito turco. Auto promulgatosi difensore dei valori della patria, del secolarismo e dell’eredità di Ataturk, l’esercito è da sempre una presenza rilevante della storia repubblicana, agendo da dietro le quinte o apertamente, interrompendo la dinamica parlamentare con ben tre colpi di Stato (1960, 1971, 1980) e intervenendo pubblicamente su ogni questione all’ordine del giorno. Naturalmente i generali, insieme ai due partiti nazionalisti attualmente all’opposizione (CHP e MHP), sostengono il mantenimento delle leggi che sono l’espressione più genuina dell’ideologia Kemalista: l’articolo 301 del codice penale che punisce “l’oltraggio alla Turchia e all’identità turca”, un meccanismo del diritto adottato per colpire qualsiasi opinione divergente o versione alternativa dei fatti, e la legge costituzionale che punisce chi “fomenta il separatismo” (perfezionata dalla “legge antiterrorismo” del 1991), un’arma legale utilizzata verso quei partiti o quegli individui che osano affermare l’esistenza di più etnie e più identità nel territorio turco. Nonostante molto sia cambiato da quando esisteva un unico partito legale in Turchia, il Partito Repubblicano, e da quando le leggi che limitavano i diritti delle minoranze erano ferree e indiscutibili, non esiste ancora uno spazio pubblico di discussione che permetta un confronto libero sulla storia e sul presente senza conseguenze per gli interlocutori. Di più, è solo da pochissimo che il governo Turco ha riconosciuto l’esistenza di una “questione kurda” nel paese, rischiando una possibile messa al bando per aver posto il problema. Il fatto è che anni di propaganda hanno plasmato la mentalità della popolazione, rendendo socialmente accettabili soprusi e limitazioni della libertà d’espressione. L’ombra costante dell’esercito e un conflitto sanguinoso che dura da venticinque anni tra lo Stato e i combattenti del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), le intimidazioni, i rapimenti e le distruzioni che hanno subito le minoranze del paese, la presenza di reti di potere sotterranee connesse ad apparati statali, sono alcuni dei nodi che la Turchia deve trovare il coraggio e l’umiltà di affrontare. Solo aprendosi al dialogo, solo con la partecipazione di più voci nel dibattito pubblico e solo facendo i conti con il proprio passato sarà possibile costruire una democrazia operativa e guardare con più fiducia al futuro.


Vivendo in Turchia si impara presto che la differenza tra gli individui è la caratteristica più saliente del popolo turco, se esiste un popolo turco. Può capitare di ascoltare versioni talmente diverse della stessa storia, o giudizi opposti sullo stato delle cose, che il più delle volte, per quieto vivere, si evitano certi argomenti. Ad esempio, il conflitto nel profondo est fra esercito e guerriglieri del PKK (in corso ufficialmente dal 1984). È come raggiungere un punto critico delle contraddizioni quando si parla dei fatti e delle ragioni della guerra. Non esiste nemmeno un modo univoco di nominarla: guerra fratricida? Lotta di liberazione? Guerra al terrorismo separatista? Ci sono famiglie che sono la personificazione di questo corto circuito: non sai davvero cosa pensare quando uno dei tuoi figli è un soldato dell’esercito regolare e l’altro si unisce alla guerriglia sulle montagne. Se moriranno, chi dei due sarà il martire? L’unica cosa che a questo punto resta chiara e senza differenze di parte, è il pianto delle madri. Oppure il valore della Repubblica, la sua sacralità va difesa o combattuta? Vivere in un agiato quartiere di Istanbul, preoccupandosi solo delle numerose possibilità offerte da un economia in crescita, rende il passato un peso ingombrante e il supporto allo Stato una naturale inclinazione. Se però nasci e cresci in un villaggio al confine con l’Iraq, la depressione del sottosviluppo ti circonda, la lingua dei tuoi genitori è diversa da quella che ti insegnano a scuola e non sai chi sei chiaramente, e dove ti condurrà la tua condizione. Ci sono storie tristi dovunque, se si sa ascoltare. E musiche, e suoni e costumi, che non sono semplicemente varietà folclorica, come vorrebbero i quieti borghesi urbanizzati, ma manifestazioni di irriducibile resistenza. È un dilemma aperto, che non ha soluzione, il nemico è lo specchio in cui ogni fazione rivede i suoi incubi. La paura inconscia di rivivere lo sfaldarsi dell’Impero Ottomano sotto la pressione dei diversi gruppi etnici, agita i sogni dei nazionalisti. E la minaccia del ripetersi di retate notturne di uomini incappucciati tiene svegli i vecchi di Tunceli, di Nusaybin, di Diyarbakir. Tante storie si sovrappongono, avvenute nel travaglio costante della storia turca. Per avvicinarsi a capire bisogna ascoltare ognuna di queste voci poiché, come diceva Erodoto, il tutto sta nel molteplice.

Osservate dal sud-est, dagli altipiani e dalle montagne dell’Anatolia, le numerose anime del paese si mostrano senza mediazioni. Basta viaggiare da Gaziantep verso ŞanliUrfa e Mardin, puntando verso Batman. Tra lunghe distese di piane desertiche sono disseminati numerosi villaggi, alcuni miseri e semidistrutti, altri verdeggianti e con una vita placida scandita dai ritmi lenti della terra. È interessante sapere che ogni paesino, villaggio, agglomerato di case che incontri sul cammino risulta avere due nomi. Il nome ufficiale, quello scritto sulle cartine e nei registri, è il più recente, ed è turco, inventato a tavolino da solerti geografi nazionalisti. L’altro nome ha un suono chiaramente diverso, è kurdo, è scritto nell’aria e sui sassi, nella memoria, e lo conosci solo domandando ai locali e solo se di te si fidano. Lo scrittore kurdo Musa Anter, nei suoi libri autobiografici, si è impegnato a preservare la memoria della vita dei kurdi schiacciati da una negazione permanente, e ricorda nei suoi scritti anche i vecchi nomi trasmessi da generazioni, prima dell’avvento della Repubblica Turca: “Diamo uno sguardo alla mia situazione: il Kurdistan è la regione più arretrata della Turchia, la città di Mardin è la città più arretrata del Kurdistan, Nusaybin è il paese più problematico della provincia di Mardin. Stelile (rinominato Akarsu dai turchi) è il più povero paesino di Nusaybin. Zivinge (rinominato Eski Mağara dai turchi) è il più sottosviluppato villaggio di Stelile e secondo l’archivio anagrafico io sono nato in via Caye, numero 2.(...) Per 7000 anni le nostre caverne erano conosciute col nome di Zivinge ma ora senza consultare gli abitanti un governo brutale, come se stesse dando un nome a un cane o un gatto, ha rinominato il nostro villaggio Eski Mağara (vecchia caverna)... così dopo 65 anni io sono diventato un abitante delle Vecchie caverne! È interessante ricordare che quando la Bulgaria indipendente iniziò a cambiare i nomi turchi in bulgaro ci fu una rivolta come se fossero stati colpiti i diritti umani. Mi domando se i bulgari hanno imparato questo giochetto dai turchi?”

Questa schizofrenia identificativa iniziò ben prima della nascita della Repubblica. Mentre l’Impero Ottomano era attraversato da rivolte, nel 1910, il disperato tentativo del governo centrale per mantenere la coesione fu di rinominare i villaggi che inesorabilmente si allontanavano dalla sua orbita di controllo; non solo i nomi kurdi, ma anche i nomi greci, armeni e bulgari furono cambiati. Non servì a molto, l’Impero era in una crisi terminale, ma la pratica fu adottata anche da quei generali, primo fra tutti Ataturk, che si diedero il compito di fondare un moderno Stato. Eppure la memoria non è andata perduta. Allora come oggi, la presenza dei kurdi in Turchia è numerosa, si parla di 15 milioni. Di questi, diverse migliaia sono stati costretti ad abbandonare i propri villaggi nel corso delle operazioni dell’esercito nell’est, emigrando verso le periferie delle grandi città. Tuttora attendono di poter ritornare alle proprie case. Circa 7000 kurdi affollano le carceri statali, con accuse che vanno dal terrorismo alla propaganda separatista, per la maggior parte soltanto colpevoli di aver partecipato a manifestazioni o di aver diffuso volantini. Anche loro attendono un’amnistia più volte annunciata ma non attuata. Fino al 1991, la lingua kurda era illegale, chi ascoltava musica o leggeva libri in kurdo subiva l’arresto. Non era possibile produrre alcun tipo di cultura, ed era persino vietato dare ai propri figli nomi kurdi. In Turchia i kurdi sono stati perseguitati per il loro sentirsi diversi, lo dicono i fatti, l’unica possibilità concessa dal governo era l’assimilazione forzata. Ma una cultura non si può cancellare, essa abita nelle persone ed è talmente profonda che resistere coincide con vivere. Mi raccontava un’anziana signora che si riunivano in segreto le famiglie kurde, di notte, e alla luce di lampade a petrolio parlavano nella loro lingua fino al mattino, insegnando ai bambini le storie tramandate di eroi e poeti. La trasmissione del sapere per via orale è stata per millenni l’unica forma di memoria del popolo kurdo. Musa Anter è uno degli intellettuali che provava a trasportare questa memoria in forma scritta, e a raccontare tradizioni e usanze mai abbandonate. La sua lingua di scrittore era il turco, per destino più che per scelta, ironia della storia. Era anche impegnato politicamente: nel 1990 aveva partecipato con altri esponenti della cultura alla creazione di un partito che fosse espressione della minoranza kurda, il Partito Popolare del Lavoro (HEP; "Hilkin Emek Partisi"). Dichiarato illegale, i suoi rappresentanti furono arrestati, con l’accusa di “fomentare il separatismo”. Non servì ad abbattere la fiducia in Anter. Tra molte difficoltà fondò e diresse l’Istituto Kurdo di Istanbul, e animò come redattore due importanti giornali: il settimanale Yeni Ülke e il quotidiano Özgür Gündem. Fino all’ultimo fu costantemente impegnato nel racconto del suo tempo, dal punto di vista dei kurdi. Finché non lo ammazzarono. Nella città di Diyarbakir, durante una manifestazione culturale, fu prelevato dal suo albergo da qualcuno che conosceva, e fu condotto insieme al nipote Orhan Miroğlu in un luogo isolato. Lì, gli spararono almeno otto colpi. Era il 20 dicembre 1992. Per 15 anni le indagini sono rimaste a un punto fermo. I dossier relativi all’omicidio sono stati classificati come “segreto di Stato”, anche se il procuratore ha ammesso che ad agire sono stati agenti statali. Nel 2007, dalla Svezia, l’ex-guerrigliero del PKK ed ex-membro del JITEM (un apparato segreto della gendarmeria utilizzato nella “lotta al terrorismo”), Abdulkadir Ayğan ha iniziato a parlare, rivelando che l’omicidio fu compiuto nell’ambito del JITEM, ordinato da ufficiali governativi. Perché? Uno scrittore è armato solo di parole, e nei suoi scritti Anter parlava del passato. Aveva speso anche parole dure nei confronti del PKK, accusandone alcuni membri di vessare i civili kurdi con tassazioni e di partecipare congiuntamente ad elementi statali al traffico di droga. Per trovare il movente, bisogna guardare altrove, all’attività segreta di organizzazioni interne allo Stato che agivano (agiscono?) in nome di interessi propri, nell’intento di fomentare il caos e l’instabilità. Molti eventi sanguinosi senza apparente spiegazione della recente storia turca, osservati da questa prospettiva, troverebbero forse una soluzione.


Musa Anter


Le mani alzate al cielo e un’invocazione, sono la risposta della madre di Baran alle mie domande sul suo passato. Villaggio nei pressi di Halfeti, provincia di ŞanliUrfa, giorni del Kurban Bayram, o Eid, la festa del sacrificio più importante del calendario musulmano. La lingua che qui si parla per le strade è il kurdo, i bambini crescono bilingue. La mattina a scuola insieme al maestro, prima delle lezioni, pronunciano la professione di fede alla patria turca: "Ne Mutlu Türküm Diyene", “Felice Colui Che Può Dirsi Turco”, sentenza di Ataturk inscritta in ogni angolo del paese, mentre alla sera intonano con la famiglia i canti del loro popolo, se non hanno il televisore per guardare canali satellitari kurdi. Quaggiù le questioni politiche sono lontane, e allo stesso tempo sono accanto al pane che si mangia ogni giorno. Molte famiglie vivono una quotidianità difficile, fatta di stenti e sacrifici che non lasciano spazio alla speculazione. Il desiderio dei giovani è principalmente trovare un lavoro, lasciare il villaggio, vedere il mondo. Non tutti. Alcuni alimentano dentro sè stessi l’odio costante per i tank turchi che passano nelle stradine sterrate, troppo grandi e minacciosi per questa contrada di pastori e contadini. Sulla pelle dei giovani kurdi si gioca una sporca partita di propaganda incrociata: da un lato l’assimilazione ad ogni costo, dall’altra la guerriglia fino alla morte. Lo spirito genuino di rivalsa che può provare un kurdo consapevole della sua storia, viene incanalato dai seguaci del PKK anche verso azioni non propriamente di resistenza. Distinguere è difficile, se non impossibile. Segmenti deviati del Partito dei Lavoratori del Kurdistan collaborano con uomini dello Stato nel traffico di droga, da queste parti non è un mistero. Alcuni dicono per finanziare la guerra di resistenza ma altri sono sicuri che esistono accordi segreti tra le parti affinchè la guerra non finisca mai. Lo scontro violento spesso si risolve in assassinii tra l’esercito e i combattenti, in mine piazzate sulle strade che coinvolgono civili inermi, e in bombardamenti dell’esercito su villaggi di pastori. Dove porta la scia di sangue? Trovare una mediazione tra i due estremi, è ciò che ha deciso Baran. Studia alacremente storia all’università di Gaziantep, e ciò che non gli fanno studiare lo approfondisce per conto proprio. Come la rivolta e il massacro di Dersim, negli anni 1937-38, dove furono uccisi secondo stime al ribasso almeno quarantamila tra kurdi alevi (una setta dell’Islam) e cristiani. Oggi Dersim si chiama Tunceli, ma i vecchi ricordano ancora. Eppure, alla facoltà di storia i professori non ne hanno mai sentito parlare... Baran vive la sua identità con coraggio, cercando strade per una rivalsa che non passi attraverso un fucile. Intanto, in casa sua, la madre non riesce a fare a meno di tenere sempre acceso il televisore sul canale che trasmette dal Kurdistan iracheno, forse un modo per ricordare che esistono luoghi in cui i kurdi sono liberi di essere sè stessi.



Ci sono segnali inequivocabili di un cambiamento in atto nelle politiche e nella percezione della “questione kurda”. Da quando nel 2005 il primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan tenne il suo famoso discorso a Diyarbakir in cui riconobbe l’esistenza della questione, è stato come aprire una pentola a pressione da cui molte speranze sono emerse. Fino ad allora dei kurdi in Turchia si parlava o come di “felicemente integrati” o come di “sostenitori dei terroristi”, negando a priori l’esistenza di qualsiasi problema condiviso. Sembrava impossibile anche solo immaginare ciò che sta accadendo oggi. Vedere, ad esempio, il ministro degli esteri turco Ahmet Davutoğlu sorridente e circondato da bandiere del Kurdistan iracheno mentre stringe la mano al Presidente del Governo Regionale Kurdo, Massoud Barzani, lanciando un messaggio d’amiciza (tradotto in kurdo) e descrivendo Erbil, la capitale dei kurdi iracheni, come casa propria. Un vero momento storico e un altro passo della politica di Davutoğlu “zero problemi con i vicini”, che sta conducendo a cambiamenti nelle relazioni con il problematico governo siriano e ha portato alle prime timide aperture verso l’Armenia. Un altro evento che rompe col passato è stato la creazione in Tuchia, all’inizio del 2009, del primo canale televisivo in lingua kurda, partito con delle limitazioni sugli orari di trasmissione, ma che lentamente sta guadagnando autonomia. Ancora, l’apertura del primo dipartimento di lingua e letteratura kurda all’Università di Mardin, diventato operativo dopo tanti rinvii e intimidazioni. In questa partita un ruolo importante hanno avuto le pressioni dell’Unione Europea, per la quale l’allargamento dei diritti culturali e linguistici è un prerequisito irrinunciabile all’entrata della Turchia nel club europeo. E il Partito della Giustizia e Sviluppo (AKP) di Erdoğan sta moltiplicando gli sforzi in questa direzione. Alla fine dell’estate è stato annunciato un pacchetto di riforme per garantire i diritti delle minoranze, chiamato prima “l’inziativa kurda” poi “l’apertura democratica” e infine sigillato come “il progetto di unità nazionale”. Il 45% della popolazione, secondo un recente sondaggio, sostiene il processo in atto; troppi anni di guerra e troppi morti (stime parlano di 40.000 vittime) stanno convincendo l’opinione pubblica dell’impossibilità di risolvere lo scontro con il PKK solo con le armi. Persino il Generale in comando İlker Başbuğ ha fatto la storia, essendo il primo generale turco a riconoscere che l’esercito da solo non può risolvere il conflitto. Alcuni opinionisti, tra cui Cengiz Çandar (giornalista del quotidiano Radikal), connettono la serie di riforme in atto ad una strategia economica di stabilizzazione dell’Anatolia e di normalizzazione dei rapporti con i kurdi iracheni. Con l’imminente partenza dei soldati americani dall’Iraq (annunciata al più tardi per l’inizio del 2011) i Turchi non avranno più carta bianca per le loro incursioni oltre confine a “caccia di terroristi” e la presenza di giacimenti di idrocarburi nel territorio del Governo Regionale Kurdo impone il consolidamente di alleanze commericiali (tralatro in atto da qualche anno con investimenti turchi nel territorio) piuttosto che ulteriori conflitti. Ci sono grandi progetti in cantiere per la costruzione di gasdotti che attraverseranno l’Iran e la Turchia verso l’Europa (il progetto Nabucco) e lo Stato turco ha interesse alla pacificazione dell’est per evitare attacchi durante i lavori. Riserve di gas che fanno gola agli europei, per limitare la dipendenza dalla Russia nell’approvigionamento energetico, e che stanno conducendo ad una convergenza di interessi. Il problema principale, e lo scopo primario dell’”inziativa kurda”, è la fine della guerra con il PKK, e il ritorno dei circa 5000 guerriglieri dal Monte Quandil e dai territori montagnosi del nord-est dell’Iraq. Per rassicurare i combattenti sulle buone intenzioni del governo, lo stesso presidente Abdullah Gül ha annunciato che quelli che erano considerati fino a poco fa “terrosti”, in caso di ritorno, saranno reintegrati nella società. E per testare queste parole di apertura, agli inizi di ottobre, 34 combattenti si sono consegnati alle autorità turche, iniziando la discesa dalle montagne. Accolti come eroi da molti kurdi in Turchia, fatto che ha suscitato aspre critiche dei partiti all’opposizione, gli ex-guerriglieri hanno consegnato una dichiarazione del PKK che vuole essere una mano tesa alle riforme attuate dall’AKP. Se i diritti dei kurdi aumenteranno in Turchia e se gli ex-combattenti saranno graziati, il PKK si impegna a cessare le ostilità. Anche Abdullah Öcalan, leader del PKK, dal carcere di Imrali dove sconta una sentenza a vita, ha fatto pervenire ai suoi avvocati una road-map per la pacificazione, attualmente allo studio del governo.

Un attore importante, il cui destino è incerto, resta il Partito della Società Democratica (DTP), partito legale che rappresenta i kurdi in parlamento, e che nelle elezioni di marzo ha aumentato la sua base politica. Due anni fa, è inziato un procedimento intentato dall’Uffcio del Procuratore della Suprema Corte d’Appello nei confronti del DTP, accusato di fomentare il separatismo e di intrattenere rapporti con il PKK. Il partito rischia la chiusura e l’esclusione dalla politica di 219 membri per cinque anni. L’otto dicembre è iniziata l’udienza della Corte Costituzionale che dovrà decidere della fondatezza delle accuse. Il momento è delicato, e un’eventuale chiusura del DTP potrebbe essere un serio ostacolo al processo di “apertura democratica” sostenuto dall’AKP. Nei giorni scorsi, in molte città dell’est e a Istanbul ci sono state proteste di kurdi per le strade sfociate in scontri con le forze dell’ordine. I manifestanti, richiamati anche dai proclami del DTP, accusano il governo di aver peggiorato le condizioni di incarcerazione di Abdullah Öcalan, spostato in una nuova cella che gli avvocati hanno detto essere più piccola e peggio illuminata della precedente mentre il Ministro della Giustizia ha affermato essere in linea con gli standard europei. Ha tanto l’odore di un pretesto, raccolto dal malcontento dei kurdi e trasformato in casus belli dai parlamenteri del DTP. Ciò non pone a loro favore, mentre la Corte Costituzionale è impegnata a decidere se le azioni e le dichiarazioni del partito siano o no “in contrasto con l’integrità dello Stato”. L’unica cosa che a questo punto può salvare il DTP è un cambiamento della “Legge sui Partiti”, a lungo criticata per i suoi aspetti anti-democratici. Ma ciò risulta difficile, poichè è necessario il sostengno anche dei partiti nazionalisti, i quali non nascondono la loro decisa opposizione al processo di “apertura democratica”. Come si comporterà l’AKP nel caso in cui la Corte Costituzionale decidesse la messa al bando del DTP? L’inziativa del governo di allargamento dei diritti e della democrazia subirà ripercussioni negative? Sarà possibile aspettarsi una convergenza di sforzi nel progetto di unità nazionale mentre per le strade si combatte e il parlamento viene decimato da leggi anti-democratiche? In tutto questo, i partiti nazionalisti del CHP e del MHP continuano la loro propaganda che demonizza l’AKP accusandolo di cospirare per la separazione del paese e di scendere a patti con i terroristi. Ulteriore benzina sul fuoco in un groviglio di tensioni di cui non si vede la fine.


C’è una foto che parla del presente meglio di un discorso. È una foto di questi giorni, di una delle manifestazioni nell’est, che sono scoppi di rabbia e d’orgoglio che vengono da lontano, che parlano di tragedie passate e desideri per il futuro. Ci sono bambini che lanciano pietre, decine di bambini. Sono chiaramente troppo piccoli per avere opinioni politiche, ma non così inconsapevoli da non rendersi conto del pericolo che corrono. Essi chiedono di essere tenuti in considerazione. Lo fanno in maniera violenta perchè per troppo tempo la violenza è stata l’unica lingua comune di tutte le fazioni in lotta. Chiedono di essere riconosciuti, di avere una storia, di vedere le madri felici, i fratelli tornare. La strada intrapresa da alcuni partiti e gruppi sociali può portare per la prima volta a un cambiamento davvero radicale nei rapporti tra gli individui in Turchia, a un dialogo tra le differenze, a un confronto aperto su temi comuni per raggiungere decisioni condivise, liberi da schizofrenie autoritarie e sogni, incubi, di unicità e purezza identitaria. Prima o poi, la Costituzione di questo paese dovrà cambiare, i suoi presupposti etnici sono un limite alla convivenza della diversità e alla libera espressione dell’opinione. Oggi si vede un lumicino nell’oscurità imperante, alimentarlo e farlo crescere è l’unica cosa saggia da fare.




domenica 8 novembre 2009

Il suono della solitudine


Sulla soglia della notte annuvolata, nelle prime fredde carezze dell’autunno, ragiono sullo sgocciolio della vita di Gaziantep, oscura materia che si dimena lì fuori. Appostato nella radura dell’inosservato, la mia finestra sui tetti è un desiderio di volare inespresso. Volare anche via, che sia lontano non importa. Lo sento, sono braccato. Mi invade l’ hüzün, che già si gonfiava nei passi affrettati di ritorno dal bazar. Ora, qui in casa, appanna il vetro della mia solitudine, confonde i contorni delle cose, il loro muto stare. L’ hüzün. Agitarsi dell’anima alla ricerca di qualcosa di assente. E’ simile ad una mano malinconica che si allunga nel buio per abbracciare l’amore, e lo cerca nonostante tocchi solo buio. Ti capita forse quando sei seduto su una panchina umida, circondato da alberi che sembrano indifferenti più che accoglienti, e ti guardi le scarpe, le punte delle scarpe, domandandoti se ti potranno mai portare in un luogo che valga la pena, o solo all’ennesima panchina. I vecchi che rigirano con maestria tra le dita dei piccoli rosari conoscono bene l’ hüzün, esso è la vita quando si mescola ai pensieri sulla vita, come l’acqua che si aggiunge al raki, un liquore trasparente, e diventano insieme bianchi come latte torbido. E’ una condizione sospesa, che non afferisce all’individuo ma fluttua nell’aria. Aleggia in un luogo, su una porzione di umanità, e penetra nel singolo dalle fessure della sua distrazione.



Lo scrittore Orhan Pamuk ha ravvisato questo sentimento nelle strade e nella storia di Istanbul, la sua città, arrivando ad identificare con esso lo spirito dei suoi abitanti, ciò che a loro insaputa li muove, ne nutre i sogni e ne guida le azioni. Ma ad Istanbul la notte può farti dimenticare persino il tuo nome, conducendoti alla follia in uno strascico di emozioni. Non è più la città nebbiosa della sua infanzia, dove poteva capitarti di attraversare il ponte di Galata deserto. Ora è una megalopoli mai sazia di elettricità, che confonde il suo essere con tutto ciò che l’attraversa. L’ hüzün non l’ha abbandonata, semplicemente giace più nascosto: nelle case di legno ancora in piedi, con le pareti annerite e le finestre chiuse, o nei vicoli di Fatih al tramonto, mentre l’azan chiama alla preghiera e gli uomini si sfilano le scarpe lentamente prima di entrare in moschea. Ad Istanbul, in club senza insegna incastrati nelle soffitte dei palazzi art nouveau, ci sono uomini soli, persi in nuvole di fumo grigio, con bicchieri di cui non vedono mai il fondo. Essi esplorano l’avvicinarsi del giorno decifrando i frammenti di un impero ottomano sbriciolato, lontani dalle conquiste economiche della Turchia moderna, lontani dai dibattiti sull’entrata in Europa, lontani dalle riforme dell’apertura democratica. Cosa resta del passato? Su vecchie giacche sdrucite si deposita la polvere della storia senza senso, e non sappiamo chi siamo, né dove stiamo andando. Però, vogliamo essere. E qui si misura la dimensione attiva, di desiderio insaziabile, che connota l’ hüzün, una porta chiusa dietro le spalle, dentro un cappotto pesante, e via, verso la notte e la sua offerta migliore. Le nuvole si diraderanno, prima o poi. Nel frattempo, si chiede ad una donna di aprire i pugni stretti, e dimenticare i torti, la guerra ha lasciato cicatrici persino nelle parole e si preferisce il silenzio, abbandonandosi in un tenero abbraccio. Quella luce si spegnerà da sola, e porterà con sé le ombre.



Qui è lontana Istanbul. Qui gli spazi senza vita rubano la speranza, e ogni villaggio non conosce il suo vicino. Ci si potrebbe nascondere per sempre su queste montagne e colline, in grotte paleolitiche dimenticate nei fondovalle. La città è un’oasi di cemento, alti palazzi parlano da soli di modernità, mentre diventano infinite periferie a loro insaputa. Intorno strade, e asini. Sgangherati sidecar stracolmi di legna trottano alle case contadine, dove l’elettricità si fa attendere. E bus dal destino incerto raccolgono l’umanità accalcata sui marciapiedi. Ero anche io lì, tra loro, confuso cittadino di Gaziantep, con la mia faccia da straniero che ogni giorno impercettibilmente cambia. Stringendo le chiavi nelle tasche sono salito sul primo bus verso la mahalla fuori città, il quartiere dei “nuovi arrivati”, la folla dei profughi dall’est. Vivono per le strade, affiancati alle porte, le donne allattano sugli usci. Hanno tatuaggi misteriosi, segni sulla fronte e sulle mani, relitti grafici di un islam di terra, pagano, legato a pratiche magiche per assicurarsi salute e gioia. Mi guardano passare senza chiedersi chi sono, i bambini gli insegnano che non rappresento un pericolo. E tutto è lontano da qui, mentre una ragazza curda si diverte a insultarmi con occhi indiavolati e un sorriso grottesco. Mangio il mio tavuk doner senza fiatare ad un tavolino all’angolo. Ataturk ingiallito mi guarda severo, e due vecchi fissano il vuoto aspettando si freddi il çay servito da un ragazzino. C’è eleganza anche nella povertà, se hai premura di conservare dei bisogni più alti, più sacri, di purezza interiore. Non come quei filistei che vanno in giro a convertire, ad organizzare revival radicali e false immagini del “buon musulmano”, che vorrebbero vedere solo ragazze velate e uomini in lunghi pastrani, mentre io me la rido ad immaginare uomini velati e donne padrone.



La lentezza del panettiere sotto casa è la mia serenità per due lire turche. Mi fermo spesso a parlare, a migliorare il mio turco, e nel frattempo c’è sempre un borek caldo appena uscito dal forno, che Alì mi porge di stramacchio. Col formaggio e le olive per la colazione, con il Today’s Zaman sotto braccio e le sigarette messe da parte, rincaso. Ho in mente versi turchi di poeti che in questa città incontri solo nei caffè chiusi. Mi segnano il passo, salgono le scale con me, fino alla soffitta dove ritornano a danzare, per svelarsi, infine, sussurri brutali di chi ha visto il farsi e disfarsi del mondo.

Sesler

Gecenin bir zamanı evine gelince
Kilitte duyuyorsan anahtarın sesini
Anla ki yalnızsın

Elektrik düğmesini çevirince
Çıt diye bir ses duyuyorsan
Anla ki yalnızsın

Yatağına yatınca
Yüreğinin sesinden uyuyamıyorsan
Anla ki yalnızsın

Odanda kâğıtlarını kitaplarını
Duyuyorsan zamanın kemirdiğini
Anla ki yalnızsın

Bir ses geçmişlerden
Çağırıyorsa eski günlere
Anla ki yalnızsın

Değerini bilmeden yalnızlığının
Kurtulmak istiyorsan
Kurtulsan da yapayalnızsın



Suoni

Se senti il suono della chiave nella serratura
quando torni a casa di notte
tu sai che sei solo.

Se senti un leggero scricchiolio
quando premi l’interruttore della luce
tu sai che sei solo.

Se il battito del tuo cuore non ti lascia dormire
quando vai a letto
tu sai che sei solo.

Se senti il tempo rosicchiare
i libri e le carte nella tua camera
tu sai che sei solo.

Se una voce dal passato
ti riporta ai tuoi tempi andati
tu sai che sei solo.

Se vuoi fuggire dalla solitudine
senza apprezzarla
allora sei davvero solo, anche se puoi fuggire.

-Aziz Nesin-

lunedì 19 ottobre 2009

uzak Bilèk


Approximately half an hour far from Gaziantep, rises the village of Bilèk. It has more then three thousand inhabitants, scattered in anonymous brick houses, living with few things, just the necessary. There is a school for the many children living there; all them, the day we went to the village, followed our group showing us their favourite places for playing and the hidden corner where they think there is some beauty. The children were really curious about us, and especially about me, the stranger, and it was clear that their enthusiasm was doubled by this unusual visitor, from a far country. It seemed that in the poor life they live everything could turn into a game, their needs are simple and their desire for human contact huge. There were especially male children, and some female, but of course very shy. Since their childood, the girls learn to be aside, to not be open and to not speak too much with boys and men, especially if strangers. Therefore i can say in Bilèk the patriarchy custom is still strong, and deep interanlized laws rule the village life.

Me and my classmates were free to walk and discover the village, and all the population seemed to be very happy of our interest. We entered in two houses with courtyard where some women were engaged in their work: the preparation of local sweets. There were just women attending every phase of the work, a long and patient work, that give as result very good sweets: the “cevizli sucuk”, some kind of buds with walnuts, and the “pestil”, a sweet sheet useful to making cakes. To make these food they do not use white sugar, but only the sugar from a grape jam, left to heat in large pot. This means the extremly healthy quality of the food, done as centuries ago.
During their work they seemed happy, and also glad of our presence. We tried everykind of just made food and we went away really full. The kindness of this people always surprises me, no matter the language, the cultural difference and different behavior, they will always open their houses for the stranger, they will give what they have, and if they have nothing they will give smiles. It is the kind of solidarity common in cohesive communities, where culture is something that teach without any doubt how to be with guests. There is no fear for the one who brings only curiosity, like an old memory that knows what does it mean to be far from home and, maybe, painful.For this the tradition teaches to help and to host.

As I saw the village has some structural problems: the buildings and the roads require maintenance that lack, there is no safety place for children playing, and they risk everyday to broke their bones on the rocks laying everywhere. I’m not sure about the chance to get a doctor or to go hospital in short time if it is necessary. No police or someone that reminds a governement, somewhere. And also, no work, except the traditional one or few necessary shops.

When we went away the cildren followed the bus for many metres, laughing and screaming. I’m sure, they will wait for us, or for anyone will pass to Bilèk.

Uscire dalla città



A Bilèk non ci vai per caso. E’ così solitario e spoglio questo villaggio, in mezzo al deserto di sassi ocra e neri, tra i radi alberi di noci e di frutta, che ti ci vuole un buon motivo per spingerti laggiù. Sta a circa un’ora da Gaziantep, adagiato sulle pietre, sormontato da un piccolo colle. Ci sono delle fattorie intorno, fiumiciattoli e qualche campo. Aquile maestose planano sul paese e nei dintorni, puntando le carcasse. Poco prima di vedere apparire le sparse case grigie, frotte di capre costeggiano la via, rallentano il passo. E soffocato di caldo vedi le montagne lontane in controluce, nella loro abbacinante durezza, davanti ad una mare di sabbia aspra, acuminata e secca come la gola di un morto. Solo qualche uomo sperduto e fermo, che guarda, ti saluta in silenzio; altri, contadini, trottano in motorette rosse. Che ci fai a Bilèk? Non è un piccolo borgo attraente, non un paesino d’arte, e non c’è nessun panorama o evento culturale ad attenderti. Case, di cemento grezzo coi mattoni in vista, moschee chiuse da decenni. Asini attoniti come statue impegnati nel costante ruminare di rachitiche sterpaglie. E strade che non sono strade, ma semplici mulattiere piene di buche. Scesi in paese però, che accoglienza. "Hoş geldiniz" è la parola che risuona dopo il cigolare dei cancelli che si scihudono, Benvenuti. L'atmosfera è di festa. "Si pensa a noi", e la timidezza delle ragazze velate del paese può per la prima volta temprarsi sulla curiosità che provano per l'ospite, perdipiù straniero.





Ci sono andato con la mia classe di sociologia per motivi di ricerca, per osservare i metodi tradizionali di preparazione dei dolci locali. E per conoscere e parlare con gli abitanti, per domandarci insieme come va la loro vita. Scoperte interessanti si fanno in luoghi isolati, come se l’assenza di un flusso costante di novità possa conservare blocchi di memoria che resistono all’aridità. Molte azioni si ripetono uguali a Bilèk da tempo immemorabile. Quasi in tutti i cortili, quelli che se lo possono permettere, le famiglie lavorano nella produzione di Cevizli Sucuk e Pestil. I Cevizli Sucuk sono gemme di noci o pistacchi, intinti nell’uzum e lasciati a seccare al sole impetuoso dell’est, mentre i Pestil sono lenzuoli d'uzum, necessari per la preparazione dei famosi baklava di Gaziantep. L’uzum, questa melassa dolce e calda che bolle senza sosta su un fuoco crepitante, è semplice uva pressata e mescolata ad altri ingredienti che ne aumentano la consistenza. Dolcissima in bocca, senza aggiunta di zucchero, si gusta anche a cucchiaiate in scodella, e dicono sia salutare ed energetica, una panacea naturale. Ce la offrono sorridendo, e posso vedere il biancore luminoso dei denti, anche se producono dolci e ne consumano in quantità, che mi fa capire la bontà degli ingredienti, l’assenza di dolcificanti, e la vita sana che conducono qui, contro il deserto. E’ un lavoro lungo e paziente fare i Cevizli. Ogni noce o pistacchio viene bucato nel centro con un punteruolo e fatto passare attraverso un filo di spago doppio. Questa collana spezzata, di venti o trenta frutti, si aggiunge poi ad altre e vengono legate ad un ramo giovane. Sono così pronte per essere intinte ad una ad una e svariate volte, nell’uzum che ribolle. Il gesto è deciso, sprofondano nella pasta molle come panni nell’acqua, ne escono dorate e grondanti e vengono messe ad asciugare su lunghe aste provviste di uncini. Una volta indurite sono Cevizli, hanno un colore di ambra millenaria e la morbidezza di caramelle gommose, con un cuore duro e squisito. Un chilo costa 20 lire, circa dieci euro, e ti basta per un mese. Ecco un buon motivo per andare a Bilèk, a farsi una scorpacciata di Cevizli, o magari a prenderne grandi quantità per poi rivenderle al dettaglio in centro a Gaziantep, e guadagnarsi la pagnotta. Ho incontrato un signore anziano che fa questo da vent’anni, e ci campa.









Le donne di Bilèk continueranno a bucare frutta secca e ad attendere ospiti e avventori. Sono loro l’anima di questo lavoro, ne compiono ogni passaggio lavorando in silenzio o intonando canti sconosciuti. Non importa l’età, giovani e vecchissime animano ogni cortile, nei loro pantaloni a buffo, con veli colorati messi alla buona e i capelli tinti di henna. Sono curde, o sembrano tali, alcuni nemmeno lo sanno, in questa contrada non ha molta importanza, purché si lavori. C’è un’anziana signora che mi invita più vicino al grande calderone. Vuole mostrami la nascita dei dolci da vicino, e mi tiene stretta una spalla. E’ orgogliosa, o semplicemente è tutto ciò che ha. Le rughe sul volto raccontano stenti, che però non hanno affossato il dolce sorriso che mi dona serena. I nostri occhi si parlano. E stretta nel suo vestito sdrucito, con strappi e macchie, con il seno enorme e cadente, e i piedi nudi, mi sembra la custode dei dolci segreti per dare ai Cevizli il sapore che hanno. Sua nipote gioca con una capra legata ad un cerchio di ferro, mentre quella che sembra una figlia attende al lavoro senza darmi confidenza, così bella nel suo silenzio. Le donne qui non hanno l’abitudine di parlare agli sconosciuti, soprattutto agli uomini, solo le anziane che ormai hanno i riti di crescita tutti alle spalle non si preoccupano più della discrezione dovuta, e la comunità glielo permette. Ma dove sono i mariti, i padri i figli? Gli uomini non prendono parte al lavoro. Poco più in là nella strada, vicino ad un forno che cucina bòrek, c’è una stamberga di bar con quattro tavoli e un televisore. Lì dentro, fumando sigarette pesanti, ne trovi alcuni, diffidenti, tutti presi dalle carte e dalla tavla, mentre la tv manda video di pop turco a ripetizione. Altri uomini sono nelle campagne vicine, altri sono partiti e abitano in città cercando un lavoro, ma nessuno si dedica alla preparazione dei dolci. Divisione dei ruoli, lento fluire del tempo che cambia i costumi, o gerarchia patriarcale? Non ci è dato saperlo con una visita soltanto, penetrare la vita di Bilèk significa entrare nel suo quotidiano mutare restando Bilèk.






Camminando per le strade siamo seguiti da un folto gruppo di bambini, quasi tutti maschi. Sono incredibilmente eccitati da noi, vogliono mostrarci gli angoli dove per loro giace bellezza, e i loro luoghi preferiti per giocare. Ci portano in una casa diroccata, dove amano nascondersi tra le macerie, in improbabili nascondini. Oppure su alla collina dove hanno trovato una cucciolata di cani, che tirano fuori da un buco nel muro. Sorridono, urlano, sbraitano, litigano. Sono una forza della natura, e mi rendo conto di quanto tutta la loro energia esplode in ogni direzione, cerca qualcosa a cui attaccarsi nell’innocenza del desiderio di divertirsi. La mia mano è tirata e alcuni mi verrebero in braccio in questa baraonda, senonchè arriviamo a entrare in una tomba, dove chi dice giace un vecchio di 110 anni, chi parla di un bambino morto, mi fanno prendere paura tutti di concerto. Mi dicono che il morto è lì. E ci stiamo tutti attorno in una casupola spersa con una minuscola entrata; e fetida. Non hanno granché qui. A parte gli alberi su cui salire, rischiando rotte d’ossa, e le galline da inseguire, neppure un posto per tirare quattro calci al pallone, un luogo che abbia le parvenze di un parco per bambini. C’è la scuola, l’edificio più moderno del villaggio, con la statua di Ataturk dorata e scintillante, ma le porte sfondate e nessuno a controllare. Ci siamo entrati, e tutti i ragazzini l’amano, in modo un po' violento. Mentre saltavano su bachi e sedie, ho avuto la malaugurata idea di proporgli una lezione lampo di inglese, giusto per insegnargli le basi per conoscere qualcuno. Tutti felicissimi della mia iniziativa, mi sono saltati addosso ripetendo ciò che dicevo senza alcuna coerenza, come un gioco, che si è presto trasformato in un prendere il “maestro” per la gola, nell’estasi di salti sempre più arditi e urla lancinanti. M’ha salvato un amico, Ercan, che m’ha chiarito quanto questi bambini possano perdere il controllo, ignorati e scarsamente educati dai familiari, spesso assenti. Non tanto diversi dai ragazzini napoletani, ansiosi di vita intensa e di scoperte, a vivere una realtà dura, ripetitiva, con sogni che o sono troppo grandi per queste mulattiere o arrivano a un tiro di sasso da qui. La prossima volta gli porto un pallone.






Il professore, l’unico che parla inglese nel raggio di chilometri, si avvicina curioso delle mie reazioni. Ancora cerco di riprendermi dall’ ”attacco” dei ragazzini, e il sole potente m’ha dato un po' alla testa. Sono confuso da ciò che mi circonda, la mia ragione cerca connessioni con altri luoghi e altri tempi che ho visitato, e trova riparo nella campagna della mia infanzia il cui spirito assomiglia alla quotidianità di questo villaggio, dai racconti e dalle visioni del passato. Sembrano solo più abbandonati e più lontani, una scaglia sfuggita alle grandi ristrutturazioni programmate da Ankara, che non ha neppure un sindaco a cui rivolgersi per far aggiustare le strade. Un luogo anche sinistro in certi momenti, che ti guarda passare, da immorale viaggiatore non responsabile del loro destino quale sei, come l’ennesimo anello di una lunga catena di eventi che non li tocca, non li cambia. C’è però qualcosa che non quadra. Vengo a sapere che Bilèk è un villaggio antico, ed aveva la sua solennità e fama. Me nessuno lo conosce ora, come fosse appena nato. Le case la raccontano lunga, fatte di mattoni recenti, alcune ancora in costruzione, emergenti dal fango come aborti edilizi, senza alcuna bellezza o segno che le caratterizzi. Effettivamente, mi dice il professore, non hanno più di cinquant’anni queste case, e sono state tirate su per la loro più pratica funzione di racchiudere uomini, e non come risultato di espressione culturale. Bilèk era un antico villaggio curdo, ma case e uomini sono stati spazzati via negli anni venti, dalle cariche e dall’esplosivo dell’esercito turco, nell’opera di “pulizia” del paese, compiuta dai padri della patria nei caotici anni delle guerre di indipendenza e di consolidamento. La gente era stata evacuata, le case distrutte. Non c’era più niente e nessuno, solo macerie, colme di memoria. I nuovi abitanti, giunti dalle campagne più disperse, hanno iniziato a ricostruire dei luoghi dove abitare sopra i resti delle antiche residenze. C’era bellezza, ed è stata seppellita sotto il cemento armato. La memoria si è sostituita ad altra memoria, viaggiando su piedi e carri, fino a solidificarsi, in attesa di un giorno dopo l’altro. Ora Bilèk sa solo che fuori dal villaggio c’è il vasto mondo, e alcuni lo inseguono. E’ viva però, e si sfornano bambini come Cevizli, poco curandosi di dove andranno a finire entrambi.


Ripartiamo nella medesima folla di ragazzini euforici che c’ha accolto così calorosamente. Battono le mani sul finestrino come per dire “non dimenticare di tornare”, e inseguono l’autobus ingoiando polvere e lanciando le poche parole inglesi che hanno imparato dallo straniero. Ercan mi guarda, Bilèk è strano anche per lui, e mi rendo conto che solo vivendoci potrei avvicinarmi a capire che cosa vuol dire nascerci.

domenica 11 ottobre 2009

La vita vista da Gaza

Nelle notti turche ad Istanbul, racchiusi in una stanza anonima del campus Sabanci, sperso in mezzo ad aride piane dell’estrema periferia est, iniziavamo a raccontarci di noi lentamente. Qualcuno occupava il silenzio con poche parole più gravi, in attesa lì da qualche parte, e gli altri si disponevano ad ascoltare: era il momento di una storia. Questo quando non ridevamo sguaiati appresso a frammenti di cultura pop, bevendo una birra o infiniti çay, oppure quando non organizzavamo uno scherzo o un colpo di genio per risollevare le serate degli studenti, “to arrange” nel nostro gergo. Ma le storie, prima o poi, venivano. Quando eravamo soli noi tre, io Yildirim e Ismael, rollando l’ennesima e aspettando il fare del giorno, coi gatti che entravano dalla finestra e i vialetti del campus vuoti e spettrali. Allora qualcosa si sbloccava e in inglese, la lingua franca della nostra amicizia, ci trasmettevamo ciò che giace nel fondo, la nostra personale vicenda che, in un modo o nell’altro, ci aveva condotto fin lì.


“Nessuno può dire che cosa sia giusto fare, capisci, non esiste! Ci puoi sbattere la testa quanto vuoi, non lo saprai mai, alla fine è arbitrario, il giusto semplicemente non c’è”. Non lo dice con leggerezza Ismael, c’ha ragionato parecchio, e sempre scivolando in un vuoto d’amarezza. Per lui la differenza con cui ogni giorno fa i conti, ciò che separa il “fare del bene” dal “fare del male”, è una linea sottilissima, talvolta inesistente. Lui è di Gaza, nato e cresciuto nella prigione a cielo aperto più grande del mondo. Gaza, territorio occupato, terra fertile e assolata, cuore di Palestina, mucchio di vite in ostaggio, ferita aperta e afonia del discorso, casa, anche se bombardata. Gaza, dove un mattino puoi svegliarti e scoprire di aver perso un parente o un amico, o puoi non svegliarti mai più. Gaza, dove sei così abituato a vedere gente in divisa coi mitra o coi tank puntati su di te, che ti domandi innocentemente perché non dovresti armarti anche tu. Ed è questo che ossessiona Ismael. Uccidere è male, dice la gente, ma se uccido per difendermi e per vendicarmi, e se attorno a me il bene senza ombra di dubbio sembra questo, cos’è il mio agire allora? Quando mi oppongo, quando resisto, convinto di lottare per la giustizia, supportato e stimato dai miei fratelli, contro una potenza imbattibile e feroce, quando mi lancio verso una morte certa ma che ha l’onore di un sacrificio per il mio popolo, e non per qualche dio, chi può dirmi che sto facendo il male? A questo punto, al livello della polvere in terra palestinese, tra le macerie e i sogni infranti, la guerra diventa un imperativo morale. E’ Resistenza, “cacciata dell’invasore”, è l’”ora” in cui si è chiamati a testimoniare il bisogno di non avere niente da rimproverarsi di fronte alla storia e di fronte alla propria coscienza. É dignità e orgoglio ferito, materiale necessità di continuare ad avere fiducia in qualcosa, per trovare la forza di agire, di nutrirsi, di lavorare, e per non crollare nell’inazione disperata. Contro tutte le logiche tattiche, che ti danno inesorabilmente sconfitto, contro la solitudine e il silenzio del mondo, contro una contro-morale che ti vuole supino attore di una tragedia scritta da altri. Poco importa che hai i giorni contati, “ammazza anche un solo fottuto soldato israeliano, e che tutto vada in malora”. Almeno, non dovrai più scegliere.


Eppure, capita che crescendo con la morte di fianco, dopo che la conosci come una compagna ghignante, inizi ad essere curioso di altre possibilità potenziali concesse alla vita. Combattere ha il suo senso, ma anche costruire lo ha. C’è il vasto mondo fuori dalle sbarre, lontano dai check point ci sono cose da imparare e persone da conoscere, e forse, nel futuro, una Gaza migliore, un Israele più umano. Puoi crederci ancora che vale la pena di respirare e di sforzarsi. Fra il dolore e la distruzione ciò che permette alla speranza di sopravvivere è un sogno che è riuscito chissà come a resistere al fosforo bianco e ai missili di Tsahal. E’ l’immaginazione di un’alternativa al sangue e alla morte cui sei stato istruito a dovere fin dall’infanzia da dati di fatto irrefutabili. E’ una possibilità che sembra folle perché non istantanea, e quindi passibile di non riuscire, ma che si fa strada dentro di te fino a maturare in una scelta. Ismael ha scelto di studiare, con tutte le sue forze. E di questa scelta se ne deve convincere ogni giorno, ad ogni nuova notizia di strage nella sua terra, ad ogni comunicazione con la famiglia in patria che gli racconta un’umiliazione o un lutto. Ancora non sa se è giusto, più giusto che combattere, se lo domanda e non trova una risposta convincente. Sa però che non vuole cedere: conquisterà conoscenza e denaro, e tornerà a casa. Vuole costruire a Gaza un centro polifunzionale per i giovani, qualcosa che lì ancora non esiste. Un luogo dove possano approcciarsi all’informatica e alle lingue straniere, dove possano mettersi in contatto col mondo esterno, dove fare musica, arte, lavori manuali non finalizzati alla sopravvivenza, ma orientati allo sviluppo dello spirito, e dove riunirsi, scambiarsi idee, divertirsi. Studia computer sciences, una materia “pratica”, come ama sottolineare, e la sua testa pullula di idee eccezionali da applicare, ottime per creare servizi utili per le persone e per le aziende che gli daranno lavoro. E’ questa l’alternativa che insegue, ciò che finora l’ha trattenuto dall’imbracciare un fucile.


Ha cervello il ragazzo. Cresciuto forte e sano da una madre che è già santa, dopo dodici figli tutti istruiti o in procinto di, tirato su con il cibo genuino di pochi campi ancora produttivi, studiando alacremente ispirato dai fratelli più grandi, tutti dei mezzi geni prodotti dalla necessità. Sono sette fratelli e quattro sorelle. Il maggiore è negli Stati Uniti dove, dopo una laurea in architettura, guadagna finalmente bene e può aiutare la famiglia. Uno vive e lavora in Giappone, un altro si è sistemato in Svezia, e ognuno fa il possibile per sostenere i rimasti a casa. Pensare che il padre e la madre hanno iniziato poverissimi, si mangiava un pane diviso e un pomodoro a testa, lavorando mattina e sera, spremendosi in sforzi inumani, con il rischio perenne di perdere tutto in un istante. Ma, chissà se per fortuna o per destino, li hanno cresciuti e addestrati bene al mondo. Nella sua famiglia ci sono i semi grazie ai quali Ismael ha optato per il lavoro duro, piuttosto che per la guerra atroce. Io ho smesso di chiedergli se crede finalmente sia giusto, restiamo a fissare il vuoto insieme, a quel punto, tirando delle somme ognuno per conto suo, e che non sono mai bilanciate. E’ già incredibile che sia arrivato fin qui, a Istanbul. Un anno e mezzo fa, grazie ai suoi sforzi e alla sua intelligenza è riuscito a vincere una borsa di studio per un semestre all’estero, nella migliore università della Turchia. Mi assicura, con un dispiacere che non ti spieghi immediatamente, che non è facile quando il 100% degli studenti fa domanda per andare dovunque, per fuggire. Devi essere il migliore, e ancora non basta. Ti devi far valere in una competizione forsennata, e lo devi fare contro i tuoi fratelli. Per questo nemmeno puoi dirti felice quando finalmente accettano il tuo application form, non te la puoi godere quella gioia così comune per tanti europei, consapevole dei tuoi amici costretti a rimanere, della famiglia che lasci sapendo che ha bisogno di te, e della lotta quotidiana a cui volti le spalle, inseguendo un futuro diverso, immaginato. E inoltre, l’Europa ti paga l’università, non ti tira fuori da Gaza, quello è affar tuo.


Dopo la conquista del posto in graduatoria, comincia l’avventura più incredibile nella vita di Ismael, i due mesi che l’hanno cambiato per sempre. Sa che deve lasciare la Palestina a tempo indeterminato, i suoi fratelli non sono mai tornati a casa prima di aver completato il ciclo di studi, chi cinque chi sei anni, perché se riesci a uscire poi è altrettanto difficile rientrare, per non parlare di partire di nuovo. Ciò che a me, da italiano in Turchia, sembra normale, “magari a Natale torno per le feste”, a lui è negato a priori. Nel momento in cui la borsa è sua e tutto è deciso, sa che non esistono agenzie di viaggio a cui rivolgersi per arrivare a Istanbul, ma che il primo passo è al contrario: deve andare a sud, verso l’Egitto, ad attendere al confine non sa quanto: finché quel muro armato si aprirà per qualche momento e lui potrà passare. Il viaggio inizia dagli addii. Ha stretto così forte la madre fino a farsi male, e se lei non l’avesse scacciato chiudendo gli occhi in lacrime, forse non sarebbe partito. Insieme al fratello sono arrivati al confine, per bagaglio pochi indumenti, i soldi necessari nascosti addosso e gli importantissimi documenti, tra cui il passaporto palestinese. Due settimane hanno bighellonato lui, il fratello e un amico che iniziava lo stesso viaggio, attorno ai soldati egiziani, alla ricerca di notizie, di novità, aspettando di passare. Non è piacevole vedere i vicini fratelli musulmani con le stesse facce truci e indifferenti che conosci bene, un paese che si dichiara amico dei palestinesi, ma che non fa nulla per rendergli la vita più facile. Attendono in centinaia ammassati al confine, un segno che dia il via alla fuga in avanti, una crepa nel blocco, tutti perennemente attenti. E’ una sfida che sfibra, che toglie la salute, sapere che in un qualsiasi momento lo spazio si aprirà e tu devi essere pronto. Guardavano tutti, ed ecco che il momento è arrivato, le difese si aprono, la massa si muove. Nessuno sa perché, potrebbe essere un punto critico raggiunto dalla folla che viene diluita concedendo il passaggio a una parte, o un momento di confusione tra i ruoli dei soldati sfruttata dall’organizzazione spontanea di profughi troppo stanchi, tant’è che bisogna correre e passare, ora o mai più. Ismael ha il tempo di guardare un’ultima volta il fratello, che gli urla solo “Va!”, prima di costringere le sue gambe esitanti a dare fondo alle energie, a fuggire più in fretta dei soldati che agguantano a casaccio bloccandoli a terra i più sfortunati, a fare più in fretta degli altri, a superare quella fottuta linea della sua amata terra. Fino a farcela.

Anche l’amico ha avuto la stessa fortuna, si abbracciano euforici, è il primo passo, ora sono in viaggio. Davanti a loro il deserto egiziano senza fine è una visione per nulla mistica, centinaia di chilometri di nulla a perdita d’occhio, senza strade o cartelli, solo sabbia anonima e terribile. Prossima tappa: Il Cairo, ma come fare? Si infilano nel camioncino di un beduino che conosce il deserto ed è disposto a trasportarli previo pagamento. Salgono in venti dove c’è posto solo per cinque, e per ore e ore viaggiano nella semioscurità, con un unico finestrino che provvede all’aria, stretti fa corpi caldi e maleodoranti, troppo felici per lamentarsi di qualsiasi cosa. Scossoni, curve prese a tutta velocità, qualcuno vomita e sale il fetore, non c’è abbastanza spazio per bere o per girarsi, non c’è spazio per fare niente. Arrivati a destinazione, i profughi esplodono letteralmente dal retro del camioncino, Ismael ha il tempo di guardarsi intorno, palazzi di periferia, strade, Il Cairo, poi vede tutto bianco, il mondo fa una piroetta e crolla a terra svenuto.


Il Cairo dicono sia una dei posti più casinari e pericolosi del nordafrica. C’è un’umanità poverissima che boccheggia ai margini e negli interstizi della città, e tra di loro un mucchio di gentaglia che non ha niente da perdere e ammazza per due soldi. Di questo Ismael se ne accorge subito, perciò passa il tempo con il gruppo di palestinesi profughi che è nomade in città, sono fra amici e si guardano le spalle. Si muovono da un quartiere all’altro per evitare la polizia, se venissero beccati viaggio di sola andata in Palestina, e in pessime condizioni. Per dormire, ogni notte una strada diversa, un parco o una stazione dei bus, facendo i turni di guardia per non finire derubati. Niente alberghi per loro, non sono ammessi clandestini, i gestori finirebbero nei guai. Lavarsi, poco; mangiare, disordinato e in fretta. Nelle lunghe notti egiziane Ismael si osservava cambiare. Non era mai uscito dalla sua città, e ora improvvisamente doveva dare fondo a tutta la sua tenacia per imparare la vita da fuggitivo. Cresceva, conosceva gli uomini, e nella sua condizione non gli sembravano pezzi di pane. In compenso, il rapporto coi suoi amici si stringeva e diventava fratellanza, comunanza data da un destino che li vuole sempre più forti degli altri per ottenere una pari dignità. All’ufficio timbri per il visto del Cairo, la folla è in costante mormorio, tenuta d’occhio da funzionari in divisa. Devono, Ismael e l’amico, ottenere a tutti i costi il segno di avvenuto controllo sul passaporto per lasciare il paese, e volare finalmente verso la Turchia e il Canada. L’ultima sfida, la più importante e la più difficile. Il timbro te lo devi guadagnare come tutto, a scapito degli altri, per non rendere il viaggio inutile. Da una porticina esce nel cortile dove sono ammassati i richiedenti un sergente grasso. Passa tra facce lunghe camminando impettito, centinaia di vite sono appese al suo insindacabile giudizio, al suo umore del giorno e alle simpatie che prova per un viso o un’espressione. Ismael sa che non può permettersi di non essere scelto, ha studiato in pochi istanti quelli che sembrano i criteri nella testa del militare, e sfoggia una faccia seria, non supplichevole, perché se fa pena non verrà scelto, e non rabbiosa, per non contrariarlo, una via di mezzo tra le sembianze di chi la sa lunga e di chi si trova lì in vacanza, ma anche occhi fissi, duri, quasi ipnotici. Quando il sergente è davanti a lui, sente la testa flippargli completamente, preghiere si mescolano ad imprecazioni nei pensieri, ma deve dissimulare tutto. “...mmm...Tu! Favorisci il passaporto...”.E’ quasi una sentenza divina, le mani gli tremano mentre allunga il documento e sente confusamente che ce l’ha fatta, che la Turchia è lì a poche ore di volo, ad attendere lui. All’amico è andata male, nel marasma un ladruncolo gli ha rubato la cartellina coi documenti e ora non ha alcuna possibilità di richiedere nulla, senza il pezzo di carta sei nessuno, e non c’è autorità a cui appellarsi. Piange, come un infante abbandonato, sul margine del marciapiede, e non ci sono parole per confortarlo. Dice a Ismael che deve andare, non può perdere nemmeno un minuto, e non deve preoccuparsi, la prossime volta andrà meglio. Ha ragione. Un anno dopo telefonerà dal Canada, la sua nuova casa, ce l’ha fatta anche lui.



La prima doccia in venti giorni Ismael ha potuto godersela nella sua nuova stanza al campus della Sabanci University, Istanbul, in qualità di studente in scholarship fruitore di una borsa di studio. Ora ha vestiti puliti, un letto suo, persone gentili e disponibili intorno, ottimi professori, e amici. L’università gli ha anche fornito un computer, e attraverso skype sente la sua famiglia ogni volta che può, quando a Gaza c’è la corrente e quando le linee laggiù non sono interrotte. Studia, e con gli ottimi risultati raggiunti è riuscito a rinnovare lo scholarship per altri sei mesi, e poi ancora altri sei. Non può permettersi di prendere voti bassi, visto che la Sabanci è una università privata potrebbero espellerlo. Non può fare cazzate, che dopo due volte che t’hanno mandato alla sezione disciplinare sei espulso. Ma può vivere questa città meravigliosa e vitale, può allargare a dismisura i suoi riferimenti, può trovare una ragazza e amarla. Anche se, mi dice, non è più capace di amare. Alle mie insistenti domande, una notte, si è aperto e mi ha raccontato: “Avevo una ragazza a Gaza, dovevamo sposarci. L’amavo, per la prima volta nella mia vita ero sicuro di qualcosa. Poi Israele ha bombardato la sua casa. E’ morta con la sua famiglia. Dopo che ho visto i pezzi del suo corpo sparsi per terra, dopo il dolore che ho provato, non permetterò mai più a me stesso d’amare.”

Vivi Ismael, e la guerra combattila con il tuo sogno.


sabato 19 settembre 2009

La vita non è uno scherzo, di Nazim Hikmet



La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio
come fa lo scoiattolo, ad esempio,
senza aspettarti nulla
dal di fuori o nell'al di là.
Non avrai altro da fare che vivere.

La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che messo contro un muro, ad esempio, le mani legate,
o dentro un laboratorio
col camice bianco e grandi occhiali,
tu muoia affinché vivano gli uomini
gli uomini di cui non conoscerai la faccia,
e morrai sapendo
che nulla è più bello, più vero della vita.

Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che a settant'anni, ad esempio, pianterai degli ulivi
non perché restino ai tuoi figli
ma perché non crederai alla morte
pur temendola,
e la vita peserà di più sulla bilancia.

venerdì 4 settembre 2009

Istiklal e Tarlabasi


Qui. Il rumore si fa suono se solo fai attenzione. Lo so che sei catapultato a migliaia di chilometri da casa, trasferito volontariamente da treno a nave ad autobus a taxi, e consegnato infine come un pacco ammaccato al tuo destino, ma devi sforzarti di non mandare tutto al diavolo. La Repubblica Turca sorge esattamente ai tuoi piedi, come un vasto spazio di tensione, montagne, felicità e deserti. La lingua, questo parlare musicale la cui grafia e struttura sintattica sono state sistematizzate e imposte per decreto dal Padre dei Turchi, Mustafa Kemal, e le cui parole emergono da secoli di scambi tra arabo, persiano e ottomano, questa lingua in cui sei immerso, devi impararla. E devi cominciare subito. Come dice un vecchio proverbio turco: “Su akar yatağını bulur”, l’acqua che scorre trova il suo corso. Perciò, inizia a scorrere. Solo adattando il tuo essere dentro e fuori, assorbendo e facendoti assorbire, puoi restare te, un te nuovo, ancora sconosciuto, che si fa lentamente, nel tempo che ci vuole per imparare una lingua nuova. Lasciati andare e fatti forza, apriti e cerca, fluisci.


Come le barche nel Bosforo. Un’incessante processione di pellegrini nautici, di tutte le fatte e misure, veloci come il carico o gli ordini impongono, dirette ai porti o agli oceani. Ogni volta che getti lo sguardo su questa lingua di mare fra due continenti resti impressionato dalla folla che la solca. Una piccolissima barchetta da pesca affronta gigantesche petroliere, per fornire pesce alla sua famiglia di Fathi. Ondeggia lentamente contro le correnti del Bosforo, una corta bandiera turca stirata dal vento, pochi strumenti del mestiere e lo sguardo che da lontano scruta la costa. A neanche mezzo chilometro, il porto commerciale di Istanbul, vicino Kadikoy, è in piena attività. Le braccia meccaniche smistano container da 200 tonnellate, ricolme di merci cinesi. La ferita del porto qui è uno squarcio dove passano patrimoni e imperi. Proprio da quella banchina centinaia di storie hanno inizio, e le guardo accadere mentre il battello mi porta a Kabatas, ancora straniero e frastornato.

Girare solo per Istanbul ti fa sentire insignificante. E potente. L’intera città cospira per farti smarrire, lasciandoti credere che sei tu a gestire la partita. Tutto passa di qui. E ti travolge. La contraddizione insanabile è la cifra della vita di Istanbul. Da Taxim square, una delle piazze più importanti e frequentate della parte europea, parte Istiklal caddesi, strada pedonale tra le più ricche, con le grandi marche, gli alberghi importanti, e centro caldo dell’economia minuta, cianfrusaglie e cibo. Certe volte è talmente affollata che non cammini, ti portano gli altri. I tavolini bassi delle strette stradine laterali non hanno più spazio, tra çay, birra e tavla. Ci sono ore in cui vedi talmente tante facce che credi di essere al centro di qualcosa di grosso, e tutti lo stiamo aspettando, lo leggi negli occhi, sta per succedere. Ma poi la ruota continua a girare, la gente cambia e la folla resta, i musici non cessano di lamentare assenze o cantare eroi, i soldi volano spiegazzati da tasche a tasche, l’acqua ancora bolle per altri çay, e puoi vedere ingozzarsi di carne modelle seminude e donne velate. E’ una strada lunga Istiklal, e in ogni punto è un microcosmo permanente: ci sono i venditori di biglietti della lotteria, il lotto turco, accanto a chi abbrustolisce pannocchie e smercia ciambelle, lì una banca, due metri più in là un ristorante che mostra chili di carne sanguinolenta per la gioia degli avventori. Le esistenze così diverse che si incrociano nel passeggio, puoi vederle filare come linee colorate, ognuno seguendo il suo percorso, guidato dalla sua fede, sacra o profana. Certe facce non passano inosservate, e non si tratta di bellezza. Dalla luce negli occhi riconosci lo scaltro borseggiatore che fiuta i passanti, ma può solo immaginare il suo bottino. Ci sono sbirri ogni cento metri, guardinghi e severi, a vegliare sugli ignari turisti ubriachi d'acquisti. I ladruncoli sai che non hanno fatto molta strada, le loro case sono nei paraggi, ma nessuno va a trovarli. Duecento metri, ecco tutto, e ti ritrovi in un altro mondo. Basta prendere una delle stradine laterali a destra se vieni da Taxim square, e dopo un dedalo di viuzze, vedi un'insolita scena. Panni stesi ad asciugare su fili tesi tra due palazzi, manco fossi a Forcella, segno evidente della presenza di zingari e di altre etnie, altre abitudini. Tarlabasi, via del popolo degli abissi che vive in piena luce.

Scorre parallela ad Istiklal ma sembra la sua sorella maledetta. Antiche case ottomane, ormai cadenti, affacciano su un formicaio lurido e malfamato, dove senti altre lingue, vedi altre facce. Anche qui è un centro di piccola e grande economia, ma di tipo diverso. Niente marche, molte marchette. E Droga e armi, se vuoi fare la festa a qualcuno qui hanno ciò che ti serve. Ma, naturalmente, vedi d'andarci con uno del posto e modella bene la tua faccia da cattivo o preparati a sorridere a scalmanati ragazzini, che tra un pallone e una gomma da masticare sono attratti dai, rari, nuovi venuti. Quello che c'è sotto lo vedi solo se sei pronto a riconoscerlo, senza trovare infamità dove è invece solo povertà, ma seguendo la scia di scambi e passaggi tra i veri padroni, confusi nel quartiere. C'è una variegata umanità a Tarlabasi, qui si sono rifugiate molte famiglie curde, specialmente dopo la tremenda offensiva dei primi anni novanta dell’esercito turco nell’est, quando interi villaggi furono distrutti. Ci sono i Roma, gli zingari, da così tanto tempo che hanno dimenticato da dove sono partiti. E armeni e greci, i vecchi abitanti del quartiere, ormai in minoranza, dopo che il grosso ha abbandonato il paese durante i pogrom turchi dei primi del novecento. Anche oggi la disgraziata umanità che giunge a Istanbul, passa per Tarlabasi. E c’è sempre posto, tra le case abbandonate e i negozi chiusi, in attesa di nuovi abitanti. Cammini e ti domandi come sia possibile vedere Istiklal sempre linda nonostante la densità di gente e relativi rifiuti, mentre a Tarlabasi la mondezza ammuffisce per giorni. Perchè qui non passano che una volta al mese i netturbini? E perchè i lavori di ristrutturazione l'ultima volta sono stati fatti quando la Turchia era un sultanato? Le fogne a cielo aperto sono un tanfo difficile con cui convivere. In realtà l’amministrazione ha intenzione di “ripulire” questa via, costruirci nuove case, e far sloggiare gli abusivi. In poche parole, renderla appetibile a compratori stranieri, per farne una gemella di Istiklal. Provare a eliminare qualche contraddizione può sembrare nobile, ma che ne sarà dei vecchi abitanti? Forse li manderanno nelle immense e anonime periferie di Istanbul, delle Secondigliano al cubo. Qualcuno mi dice che il degrado e la povertà di Tarlabasi sono voluti, per confondere le idee alla polizia, mescolando poveracci e affari loschi, visto che finchè saranno inestricabili ci sarà più libertà di movimento. Vai in un tugurio di sottoscala e troverai più denaro che all' AK bank. Ad ogni modo sarà impossibile cambiare alcunché fino a quando le migliori puttane di Istanbul saranno a Tarlabasi. Capita che ci passi di lì. Gli amici turchi dicono che c’è solo merda, ma io vedo spostarsi soldi al di là del fetore. Qui c’è il lato oscuro di vetrine scintillanti e notti brave con donne mozzafiato, qui si nascondono i ricercati che hanno rischiato troppo e qui nascono futuri boss e assassini, o ci vengono a completare la formazione. I due lati dell’apparenza, l’uno benestante e l’altro criminale, sono legati stretti come un nodo di tortura. Le due strade parallele, Istiklal e Tarlabasi, si incontrano in un punto, oltre la superficiale differenza. Sotto la merda c’è oro, per qualcuno. Un’altra storia da scavare, l’ennesima in questo mondo che ne contiene altri mille.