lunedì 19 ottobre 2009

uzak Bilèk


Approximately half an hour far from Gaziantep, rises the village of Bilèk. It has more then three thousand inhabitants, scattered in anonymous brick houses, living with few things, just the necessary. There is a school for the many children living there; all them, the day we went to the village, followed our group showing us their favourite places for playing and the hidden corner where they think there is some beauty. The children were really curious about us, and especially about me, the stranger, and it was clear that their enthusiasm was doubled by this unusual visitor, from a far country. It seemed that in the poor life they live everything could turn into a game, their needs are simple and their desire for human contact huge. There were especially male children, and some female, but of course very shy. Since their childood, the girls learn to be aside, to not be open and to not speak too much with boys and men, especially if strangers. Therefore i can say in Bilèk the patriarchy custom is still strong, and deep interanlized laws rule the village life.

Me and my classmates were free to walk and discover the village, and all the population seemed to be very happy of our interest. We entered in two houses with courtyard where some women were engaged in their work: the preparation of local sweets. There were just women attending every phase of the work, a long and patient work, that give as result very good sweets: the “cevizli sucuk”, some kind of buds with walnuts, and the “pestil”, a sweet sheet useful to making cakes. To make these food they do not use white sugar, but only the sugar from a grape jam, left to heat in large pot. This means the extremly healthy quality of the food, done as centuries ago.
During their work they seemed happy, and also glad of our presence. We tried everykind of just made food and we went away really full. The kindness of this people always surprises me, no matter the language, the cultural difference and different behavior, they will always open their houses for the stranger, they will give what they have, and if they have nothing they will give smiles. It is the kind of solidarity common in cohesive communities, where culture is something that teach without any doubt how to be with guests. There is no fear for the one who brings only curiosity, like an old memory that knows what does it mean to be far from home and, maybe, painful.For this the tradition teaches to help and to host.

As I saw the village has some structural problems: the buildings and the roads require maintenance that lack, there is no safety place for children playing, and they risk everyday to broke their bones on the rocks laying everywhere. I’m not sure about the chance to get a doctor or to go hospital in short time if it is necessary. No police or someone that reminds a governement, somewhere. And also, no work, except the traditional one or few necessary shops.

When we went away the cildren followed the bus for many metres, laughing and screaming. I’m sure, they will wait for us, or for anyone will pass to Bilèk.

Uscire dalla città



A Bilèk non ci vai per caso. E’ così solitario e spoglio questo villaggio, in mezzo al deserto di sassi ocra e neri, tra i radi alberi di noci e di frutta, che ti ci vuole un buon motivo per spingerti laggiù. Sta a circa un’ora da Gaziantep, adagiato sulle pietre, sormontato da un piccolo colle. Ci sono delle fattorie intorno, fiumiciattoli e qualche campo. Aquile maestose planano sul paese e nei dintorni, puntando le carcasse. Poco prima di vedere apparire le sparse case grigie, frotte di capre costeggiano la via, rallentano il passo. E soffocato di caldo vedi le montagne lontane in controluce, nella loro abbacinante durezza, davanti ad una mare di sabbia aspra, acuminata e secca come la gola di un morto. Solo qualche uomo sperduto e fermo, che guarda, ti saluta in silenzio; altri, contadini, trottano in motorette rosse. Che ci fai a Bilèk? Non è un piccolo borgo attraente, non un paesino d’arte, e non c’è nessun panorama o evento culturale ad attenderti. Case, di cemento grezzo coi mattoni in vista, moschee chiuse da decenni. Asini attoniti come statue impegnati nel costante ruminare di rachitiche sterpaglie. E strade che non sono strade, ma semplici mulattiere piene di buche. Scesi in paese però, che accoglienza. "Hoş geldiniz" è la parola che risuona dopo il cigolare dei cancelli che si scihudono, Benvenuti. L'atmosfera è di festa. "Si pensa a noi", e la timidezza delle ragazze velate del paese può per la prima volta temprarsi sulla curiosità che provano per l'ospite, perdipiù straniero.





Ci sono andato con la mia classe di sociologia per motivi di ricerca, per osservare i metodi tradizionali di preparazione dei dolci locali. E per conoscere e parlare con gli abitanti, per domandarci insieme come va la loro vita. Scoperte interessanti si fanno in luoghi isolati, come se l’assenza di un flusso costante di novità possa conservare blocchi di memoria che resistono all’aridità. Molte azioni si ripetono uguali a Bilèk da tempo immemorabile. Quasi in tutti i cortili, quelli che se lo possono permettere, le famiglie lavorano nella produzione di Cevizli Sucuk e Pestil. I Cevizli Sucuk sono gemme di noci o pistacchi, intinti nell’uzum e lasciati a seccare al sole impetuoso dell’est, mentre i Pestil sono lenzuoli d'uzum, necessari per la preparazione dei famosi baklava di Gaziantep. L’uzum, questa melassa dolce e calda che bolle senza sosta su un fuoco crepitante, è semplice uva pressata e mescolata ad altri ingredienti che ne aumentano la consistenza. Dolcissima in bocca, senza aggiunta di zucchero, si gusta anche a cucchiaiate in scodella, e dicono sia salutare ed energetica, una panacea naturale. Ce la offrono sorridendo, e posso vedere il biancore luminoso dei denti, anche se producono dolci e ne consumano in quantità, che mi fa capire la bontà degli ingredienti, l’assenza di dolcificanti, e la vita sana che conducono qui, contro il deserto. E’ un lavoro lungo e paziente fare i Cevizli. Ogni noce o pistacchio viene bucato nel centro con un punteruolo e fatto passare attraverso un filo di spago doppio. Questa collana spezzata, di venti o trenta frutti, si aggiunge poi ad altre e vengono legate ad un ramo giovane. Sono così pronte per essere intinte ad una ad una e svariate volte, nell’uzum che ribolle. Il gesto è deciso, sprofondano nella pasta molle come panni nell’acqua, ne escono dorate e grondanti e vengono messe ad asciugare su lunghe aste provviste di uncini. Una volta indurite sono Cevizli, hanno un colore di ambra millenaria e la morbidezza di caramelle gommose, con un cuore duro e squisito. Un chilo costa 20 lire, circa dieci euro, e ti basta per un mese. Ecco un buon motivo per andare a Bilèk, a farsi una scorpacciata di Cevizli, o magari a prenderne grandi quantità per poi rivenderle al dettaglio in centro a Gaziantep, e guadagnarsi la pagnotta. Ho incontrato un signore anziano che fa questo da vent’anni, e ci campa.









Le donne di Bilèk continueranno a bucare frutta secca e ad attendere ospiti e avventori. Sono loro l’anima di questo lavoro, ne compiono ogni passaggio lavorando in silenzio o intonando canti sconosciuti. Non importa l’età, giovani e vecchissime animano ogni cortile, nei loro pantaloni a buffo, con veli colorati messi alla buona e i capelli tinti di henna. Sono curde, o sembrano tali, alcuni nemmeno lo sanno, in questa contrada non ha molta importanza, purché si lavori. C’è un’anziana signora che mi invita più vicino al grande calderone. Vuole mostrami la nascita dei dolci da vicino, e mi tiene stretta una spalla. E’ orgogliosa, o semplicemente è tutto ciò che ha. Le rughe sul volto raccontano stenti, che però non hanno affossato il dolce sorriso che mi dona serena. I nostri occhi si parlano. E stretta nel suo vestito sdrucito, con strappi e macchie, con il seno enorme e cadente, e i piedi nudi, mi sembra la custode dei dolci segreti per dare ai Cevizli il sapore che hanno. Sua nipote gioca con una capra legata ad un cerchio di ferro, mentre quella che sembra una figlia attende al lavoro senza darmi confidenza, così bella nel suo silenzio. Le donne qui non hanno l’abitudine di parlare agli sconosciuti, soprattutto agli uomini, solo le anziane che ormai hanno i riti di crescita tutti alle spalle non si preoccupano più della discrezione dovuta, e la comunità glielo permette. Ma dove sono i mariti, i padri i figli? Gli uomini non prendono parte al lavoro. Poco più in là nella strada, vicino ad un forno che cucina bòrek, c’è una stamberga di bar con quattro tavoli e un televisore. Lì dentro, fumando sigarette pesanti, ne trovi alcuni, diffidenti, tutti presi dalle carte e dalla tavla, mentre la tv manda video di pop turco a ripetizione. Altri uomini sono nelle campagne vicine, altri sono partiti e abitano in città cercando un lavoro, ma nessuno si dedica alla preparazione dei dolci. Divisione dei ruoli, lento fluire del tempo che cambia i costumi, o gerarchia patriarcale? Non ci è dato saperlo con una visita soltanto, penetrare la vita di Bilèk significa entrare nel suo quotidiano mutare restando Bilèk.






Camminando per le strade siamo seguiti da un folto gruppo di bambini, quasi tutti maschi. Sono incredibilmente eccitati da noi, vogliono mostrarci gli angoli dove per loro giace bellezza, e i loro luoghi preferiti per giocare. Ci portano in una casa diroccata, dove amano nascondersi tra le macerie, in improbabili nascondini. Oppure su alla collina dove hanno trovato una cucciolata di cani, che tirano fuori da un buco nel muro. Sorridono, urlano, sbraitano, litigano. Sono una forza della natura, e mi rendo conto di quanto tutta la loro energia esplode in ogni direzione, cerca qualcosa a cui attaccarsi nell’innocenza del desiderio di divertirsi. La mia mano è tirata e alcuni mi verrebero in braccio in questa baraonda, senonchè arriviamo a entrare in una tomba, dove chi dice giace un vecchio di 110 anni, chi parla di un bambino morto, mi fanno prendere paura tutti di concerto. Mi dicono che il morto è lì. E ci stiamo tutti attorno in una casupola spersa con una minuscola entrata; e fetida. Non hanno granché qui. A parte gli alberi su cui salire, rischiando rotte d’ossa, e le galline da inseguire, neppure un posto per tirare quattro calci al pallone, un luogo che abbia le parvenze di un parco per bambini. C’è la scuola, l’edificio più moderno del villaggio, con la statua di Ataturk dorata e scintillante, ma le porte sfondate e nessuno a controllare. Ci siamo entrati, e tutti i ragazzini l’amano, in modo un po' violento. Mentre saltavano su bachi e sedie, ho avuto la malaugurata idea di proporgli una lezione lampo di inglese, giusto per insegnargli le basi per conoscere qualcuno. Tutti felicissimi della mia iniziativa, mi sono saltati addosso ripetendo ciò che dicevo senza alcuna coerenza, come un gioco, che si è presto trasformato in un prendere il “maestro” per la gola, nell’estasi di salti sempre più arditi e urla lancinanti. M’ha salvato un amico, Ercan, che m’ha chiarito quanto questi bambini possano perdere il controllo, ignorati e scarsamente educati dai familiari, spesso assenti. Non tanto diversi dai ragazzini napoletani, ansiosi di vita intensa e di scoperte, a vivere una realtà dura, ripetitiva, con sogni che o sono troppo grandi per queste mulattiere o arrivano a un tiro di sasso da qui. La prossima volta gli porto un pallone.






Il professore, l’unico che parla inglese nel raggio di chilometri, si avvicina curioso delle mie reazioni. Ancora cerco di riprendermi dall’ ”attacco” dei ragazzini, e il sole potente m’ha dato un po' alla testa. Sono confuso da ciò che mi circonda, la mia ragione cerca connessioni con altri luoghi e altri tempi che ho visitato, e trova riparo nella campagna della mia infanzia il cui spirito assomiglia alla quotidianità di questo villaggio, dai racconti e dalle visioni del passato. Sembrano solo più abbandonati e più lontani, una scaglia sfuggita alle grandi ristrutturazioni programmate da Ankara, che non ha neppure un sindaco a cui rivolgersi per far aggiustare le strade. Un luogo anche sinistro in certi momenti, che ti guarda passare, da immorale viaggiatore non responsabile del loro destino quale sei, come l’ennesimo anello di una lunga catena di eventi che non li tocca, non li cambia. C’è però qualcosa che non quadra. Vengo a sapere che Bilèk è un villaggio antico, ed aveva la sua solennità e fama. Me nessuno lo conosce ora, come fosse appena nato. Le case la raccontano lunga, fatte di mattoni recenti, alcune ancora in costruzione, emergenti dal fango come aborti edilizi, senza alcuna bellezza o segno che le caratterizzi. Effettivamente, mi dice il professore, non hanno più di cinquant’anni queste case, e sono state tirate su per la loro più pratica funzione di racchiudere uomini, e non come risultato di espressione culturale. Bilèk era un antico villaggio curdo, ma case e uomini sono stati spazzati via negli anni venti, dalle cariche e dall’esplosivo dell’esercito turco, nell’opera di “pulizia” del paese, compiuta dai padri della patria nei caotici anni delle guerre di indipendenza e di consolidamento. La gente era stata evacuata, le case distrutte. Non c’era più niente e nessuno, solo macerie, colme di memoria. I nuovi abitanti, giunti dalle campagne più disperse, hanno iniziato a ricostruire dei luoghi dove abitare sopra i resti delle antiche residenze. C’era bellezza, ed è stata seppellita sotto il cemento armato. La memoria si è sostituita ad altra memoria, viaggiando su piedi e carri, fino a solidificarsi, in attesa di un giorno dopo l’altro. Ora Bilèk sa solo che fuori dal villaggio c’è il vasto mondo, e alcuni lo inseguono. E’ viva però, e si sfornano bambini come Cevizli, poco curandosi di dove andranno a finire entrambi.


Ripartiamo nella medesima folla di ragazzini euforici che c’ha accolto così calorosamente. Battono le mani sul finestrino come per dire “non dimenticare di tornare”, e inseguono l’autobus ingoiando polvere e lanciando le poche parole inglesi che hanno imparato dallo straniero. Ercan mi guarda, Bilèk è strano anche per lui, e mi rendo conto che solo vivendoci potrei avvicinarmi a capire che cosa vuol dire nascerci.

domenica 11 ottobre 2009

La vita vista da Gaza

Nelle notti turche ad Istanbul, racchiusi in una stanza anonima del campus Sabanci, sperso in mezzo ad aride piane dell’estrema periferia est, iniziavamo a raccontarci di noi lentamente. Qualcuno occupava il silenzio con poche parole più gravi, in attesa lì da qualche parte, e gli altri si disponevano ad ascoltare: era il momento di una storia. Questo quando non ridevamo sguaiati appresso a frammenti di cultura pop, bevendo una birra o infiniti çay, oppure quando non organizzavamo uno scherzo o un colpo di genio per risollevare le serate degli studenti, “to arrange” nel nostro gergo. Ma le storie, prima o poi, venivano. Quando eravamo soli noi tre, io Yildirim e Ismael, rollando l’ennesima e aspettando il fare del giorno, coi gatti che entravano dalla finestra e i vialetti del campus vuoti e spettrali. Allora qualcosa si sbloccava e in inglese, la lingua franca della nostra amicizia, ci trasmettevamo ciò che giace nel fondo, la nostra personale vicenda che, in un modo o nell’altro, ci aveva condotto fin lì.


“Nessuno può dire che cosa sia giusto fare, capisci, non esiste! Ci puoi sbattere la testa quanto vuoi, non lo saprai mai, alla fine è arbitrario, il giusto semplicemente non c’è”. Non lo dice con leggerezza Ismael, c’ha ragionato parecchio, e sempre scivolando in un vuoto d’amarezza. Per lui la differenza con cui ogni giorno fa i conti, ciò che separa il “fare del bene” dal “fare del male”, è una linea sottilissima, talvolta inesistente. Lui è di Gaza, nato e cresciuto nella prigione a cielo aperto più grande del mondo. Gaza, territorio occupato, terra fertile e assolata, cuore di Palestina, mucchio di vite in ostaggio, ferita aperta e afonia del discorso, casa, anche se bombardata. Gaza, dove un mattino puoi svegliarti e scoprire di aver perso un parente o un amico, o puoi non svegliarti mai più. Gaza, dove sei così abituato a vedere gente in divisa coi mitra o coi tank puntati su di te, che ti domandi innocentemente perché non dovresti armarti anche tu. Ed è questo che ossessiona Ismael. Uccidere è male, dice la gente, ma se uccido per difendermi e per vendicarmi, e se attorno a me il bene senza ombra di dubbio sembra questo, cos’è il mio agire allora? Quando mi oppongo, quando resisto, convinto di lottare per la giustizia, supportato e stimato dai miei fratelli, contro una potenza imbattibile e feroce, quando mi lancio verso una morte certa ma che ha l’onore di un sacrificio per il mio popolo, e non per qualche dio, chi può dirmi che sto facendo il male? A questo punto, al livello della polvere in terra palestinese, tra le macerie e i sogni infranti, la guerra diventa un imperativo morale. E’ Resistenza, “cacciata dell’invasore”, è l’”ora” in cui si è chiamati a testimoniare il bisogno di non avere niente da rimproverarsi di fronte alla storia e di fronte alla propria coscienza. É dignità e orgoglio ferito, materiale necessità di continuare ad avere fiducia in qualcosa, per trovare la forza di agire, di nutrirsi, di lavorare, e per non crollare nell’inazione disperata. Contro tutte le logiche tattiche, che ti danno inesorabilmente sconfitto, contro la solitudine e il silenzio del mondo, contro una contro-morale che ti vuole supino attore di una tragedia scritta da altri. Poco importa che hai i giorni contati, “ammazza anche un solo fottuto soldato israeliano, e che tutto vada in malora”. Almeno, non dovrai più scegliere.


Eppure, capita che crescendo con la morte di fianco, dopo che la conosci come una compagna ghignante, inizi ad essere curioso di altre possibilità potenziali concesse alla vita. Combattere ha il suo senso, ma anche costruire lo ha. C’è il vasto mondo fuori dalle sbarre, lontano dai check point ci sono cose da imparare e persone da conoscere, e forse, nel futuro, una Gaza migliore, un Israele più umano. Puoi crederci ancora che vale la pena di respirare e di sforzarsi. Fra il dolore e la distruzione ciò che permette alla speranza di sopravvivere è un sogno che è riuscito chissà come a resistere al fosforo bianco e ai missili di Tsahal. E’ l’immaginazione di un’alternativa al sangue e alla morte cui sei stato istruito a dovere fin dall’infanzia da dati di fatto irrefutabili. E’ una possibilità che sembra folle perché non istantanea, e quindi passibile di non riuscire, ma che si fa strada dentro di te fino a maturare in una scelta. Ismael ha scelto di studiare, con tutte le sue forze. E di questa scelta se ne deve convincere ogni giorno, ad ogni nuova notizia di strage nella sua terra, ad ogni comunicazione con la famiglia in patria che gli racconta un’umiliazione o un lutto. Ancora non sa se è giusto, più giusto che combattere, se lo domanda e non trova una risposta convincente. Sa però che non vuole cedere: conquisterà conoscenza e denaro, e tornerà a casa. Vuole costruire a Gaza un centro polifunzionale per i giovani, qualcosa che lì ancora non esiste. Un luogo dove possano approcciarsi all’informatica e alle lingue straniere, dove possano mettersi in contatto col mondo esterno, dove fare musica, arte, lavori manuali non finalizzati alla sopravvivenza, ma orientati allo sviluppo dello spirito, e dove riunirsi, scambiarsi idee, divertirsi. Studia computer sciences, una materia “pratica”, come ama sottolineare, e la sua testa pullula di idee eccezionali da applicare, ottime per creare servizi utili per le persone e per le aziende che gli daranno lavoro. E’ questa l’alternativa che insegue, ciò che finora l’ha trattenuto dall’imbracciare un fucile.


Ha cervello il ragazzo. Cresciuto forte e sano da una madre che è già santa, dopo dodici figli tutti istruiti o in procinto di, tirato su con il cibo genuino di pochi campi ancora produttivi, studiando alacremente ispirato dai fratelli più grandi, tutti dei mezzi geni prodotti dalla necessità. Sono sette fratelli e quattro sorelle. Il maggiore è negli Stati Uniti dove, dopo una laurea in architettura, guadagna finalmente bene e può aiutare la famiglia. Uno vive e lavora in Giappone, un altro si è sistemato in Svezia, e ognuno fa il possibile per sostenere i rimasti a casa. Pensare che il padre e la madre hanno iniziato poverissimi, si mangiava un pane diviso e un pomodoro a testa, lavorando mattina e sera, spremendosi in sforzi inumani, con il rischio perenne di perdere tutto in un istante. Ma, chissà se per fortuna o per destino, li hanno cresciuti e addestrati bene al mondo. Nella sua famiglia ci sono i semi grazie ai quali Ismael ha optato per il lavoro duro, piuttosto che per la guerra atroce. Io ho smesso di chiedergli se crede finalmente sia giusto, restiamo a fissare il vuoto insieme, a quel punto, tirando delle somme ognuno per conto suo, e che non sono mai bilanciate. E’ già incredibile che sia arrivato fin qui, a Istanbul. Un anno e mezzo fa, grazie ai suoi sforzi e alla sua intelligenza è riuscito a vincere una borsa di studio per un semestre all’estero, nella migliore università della Turchia. Mi assicura, con un dispiacere che non ti spieghi immediatamente, che non è facile quando il 100% degli studenti fa domanda per andare dovunque, per fuggire. Devi essere il migliore, e ancora non basta. Ti devi far valere in una competizione forsennata, e lo devi fare contro i tuoi fratelli. Per questo nemmeno puoi dirti felice quando finalmente accettano il tuo application form, non te la puoi godere quella gioia così comune per tanti europei, consapevole dei tuoi amici costretti a rimanere, della famiglia che lasci sapendo che ha bisogno di te, e della lotta quotidiana a cui volti le spalle, inseguendo un futuro diverso, immaginato. E inoltre, l’Europa ti paga l’università, non ti tira fuori da Gaza, quello è affar tuo.


Dopo la conquista del posto in graduatoria, comincia l’avventura più incredibile nella vita di Ismael, i due mesi che l’hanno cambiato per sempre. Sa che deve lasciare la Palestina a tempo indeterminato, i suoi fratelli non sono mai tornati a casa prima di aver completato il ciclo di studi, chi cinque chi sei anni, perché se riesci a uscire poi è altrettanto difficile rientrare, per non parlare di partire di nuovo. Ciò che a me, da italiano in Turchia, sembra normale, “magari a Natale torno per le feste”, a lui è negato a priori. Nel momento in cui la borsa è sua e tutto è deciso, sa che non esistono agenzie di viaggio a cui rivolgersi per arrivare a Istanbul, ma che il primo passo è al contrario: deve andare a sud, verso l’Egitto, ad attendere al confine non sa quanto: finché quel muro armato si aprirà per qualche momento e lui potrà passare. Il viaggio inizia dagli addii. Ha stretto così forte la madre fino a farsi male, e se lei non l’avesse scacciato chiudendo gli occhi in lacrime, forse non sarebbe partito. Insieme al fratello sono arrivati al confine, per bagaglio pochi indumenti, i soldi necessari nascosti addosso e gli importantissimi documenti, tra cui il passaporto palestinese. Due settimane hanno bighellonato lui, il fratello e un amico che iniziava lo stesso viaggio, attorno ai soldati egiziani, alla ricerca di notizie, di novità, aspettando di passare. Non è piacevole vedere i vicini fratelli musulmani con le stesse facce truci e indifferenti che conosci bene, un paese che si dichiara amico dei palestinesi, ma che non fa nulla per rendergli la vita più facile. Attendono in centinaia ammassati al confine, un segno che dia il via alla fuga in avanti, una crepa nel blocco, tutti perennemente attenti. E’ una sfida che sfibra, che toglie la salute, sapere che in un qualsiasi momento lo spazio si aprirà e tu devi essere pronto. Guardavano tutti, ed ecco che il momento è arrivato, le difese si aprono, la massa si muove. Nessuno sa perché, potrebbe essere un punto critico raggiunto dalla folla che viene diluita concedendo il passaggio a una parte, o un momento di confusione tra i ruoli dei soldati sfruttata dall’organizzazione spontanea di profughi troppo stanchi, tant’è che bisogna correre e passare, ora o mai più. Ismael ha il tempo di guardare un’ultima volta il fratello, che gli urla solo “Va!”, prima di costringere le sue gambe esitanti a dare fondo alle energie, a fuggire più in fretta dei soldati che agguantano a casaccio bloccandoli a terra i più sfortunati, a fare più in fretta degli altri, a superare quella fottuta linea della sua amata terra. Fino a farcela.

Anche l’amico ha avuto la stessa fortuna, si abbracciano euforici, è il primo passo, ora sono in viaggio. Davanti a loro il deserto egiziano senza fine è una visione per nulla mistica, centinaia di chilometri di nulla a perdita d’occhio, senza strade o cartelli, solo sabbia anonima e terribile. Prossima tappa: Il Cairo, ma come fare? Si infilano nel camioncino di un beduino che conosce il deserto ed è disposto a trasportarli previo pagamento. Salgono in venti dove c’è posto solo per cinque, e per ore e ore viaggiano nella semioscurità, con un unico finestrino che provvede all’aria, stretti fa corpi caldi e maleodoranti, troppo felici per lamentarsi di qualsiasi cosa. Scossoni, curve prese a tutta velocità, qualcuno vomita e sale il fetore, non c’è abbastanza spazio per bere o per girarsi, non c’è spazio per fare niente. Arrivati a destinazione, i profughi esplodono letteralmente dal retro del camioncino, Ismael ha il tempo di guardarsi intorno, palazzi di periferia, strade, Il Cairo, poi vede tutto bianco, il mondo fa una piroetta e crolla a terra svenuto.


Il Cairo dicono sia una dei posti più casinari e pericolosi del nordafrica. C’è un’umanità poverissima che boccheggia ai margini e negli interstizi della città, e tra di loro un mucchio di gentaglia che non ha niente da perdere e ammazza per due soldi. Di questo Ismael se ne accorge subito, perciò passa il tempo con il gruppo di palestinesi profughi che è nomade in città, sono fra amici e si guardano le spalle. Si muovono da un quartiere all’altro per evitare la polizia, se venissero beccati viaggio di sola andata in Palestina, e in pessime condizioni. Per dormire, ogni notte una strada diversa, un parco o una stazione dei bus, facendo i turni di guardia per non finire derubati. Niente alberghi per loro, non sono ammessi clandestini, i gestori finirebbero nei guai. Lavarsi, poco; mangiare, disordinato e in fretta. Nelle lunghe notti egiziane Ismael si osservava cambiare. Non era mai uscito dalla sua città, e ora improvvisamente doveva dare fondo a tutta la sua tenacia per imparare la vita da fuggitivo. Cresceva, conosceva gli uomini, e nella sua condizione non gli sembravano pezzi di pane. In compenso, il rapporto coi suoi amici si stringeva e diventava fratellanza, comunanza data da un destino che li vuole sempre più forti degli altri per ottenere una pari dignità. All’ufficio timbri per il visto del Cairo, la folla è in costante mormorio, tenuta d’occhio da funzionari in divisa. Devono, Ismael e l’amico, ottenere a tutti i costi il segno di avvenuto controllo sul passaporto per lasciare il paese, e volare finalmente verso la Turchia e il Canada. L’ultima sfida, la più importante e la più difficile. Il timbro te lo devi guadagnare come tutto, a scapito degli altri, per non rendere il viaggio inutile. Da una porticina esce nel cortile dove sono ammassati i richiedenti un sergente grasso. Passa tra facce lunghe camminando impettito, centinaia di vite sono appese al suo insindacabile giudizio, al suo umore del giorno e alle simpatie che prova per un viso o un’espressione. Ismael sa che non può permettersi di non essere scelto, ha studiato in pochi istanti quelli che sembrano i criteri nella testa del militare, e sfoggia una faccia seria, non supplichevole, perché se fa pena non verrà scelto, e non rabbiosa, per non contrariarlo, una via di mezzo tra le sembianze di chi la sa lunga e di chi si trova lì in vacanza, ma anche occhi fissi, duri, quasi ipnotici. Quando il sergente è davanti a lui, sente la testa flippargli completamente, preghiere si mescolano ad imprecazioni nei pensieri, ma deve dissimulare tutto. “...mmm...Tu! Favorisci il passaporto...”.E’ quasi una sentenza divina, le mani gli tremano mentre allunga il documento e sente confusamente che ce l’ha fatta, che la Turchia è lì a poche ore di volo, ad attendere lui. All’amico è andata male, nel marasma un ladruncolo gli ha rubato la cartellina coi documenti e ora non ha alcuna possibilità di richiedere nulla, senza il pezzo di carta sei nessuno, e non c’è autorità a cui appellarsi. Piange, come un infante abbandonato, sul margine del marciapiede, e non ci sono parole per confortarlo. Dice a Ismael che deve andare, non può perdere nemmeno un minuto, e non deve preoccuparsi, la prossime volta andrà meglio. Ha ragione. Un anno dopo telefonerà dal Canada, la sua nuova casa, ce l’ha fatta anche lui.



La prima doccia in venti giorni Ismael ha potuto godersela nella sua nuova stanza al campus della Sabanci University, Istanbul, in qualità di studente in scholarship fruitore di una borsa di studio. Ora ha vestiti puliti, un letto suo, persone gentili e disponibili intorno, ottimi professori, e amici. L’università gli ha anche fornito un computer, e attraverso skype sente la sua famiglia ogni volta che può, quando a Gaza c’è la corrente e quando le linee laggiù non sono interrotte. Studia, e con gli ottimi risultati raggiunti è riuscito a rinnovare lo scholarship per altri sei mesi, e poi ancora altri sei. Non può permettersi di prendere voti bassi, visto che la Sabanci è una università privata potrebbero espellerlo. Non può fare cazzate, che dopo due volte che t’hanno mandato alla sezione disciplinare sei espulso. Ma può vivere questa città meravigliosa e vitale, può allargare a dismisura i suoi riferimenti, può trovare una ragazza e amarla. Anche se, mi dice, non è più capace di amare. Alle mie insistenti domande, una notte, si è aperto e mi ha raccontato: “Avevo una ragazza a Gaza, dovevamo sposarci. L’amavo, per la prima volta nella mia vita ero sicuro di qualcosa. Poi Israele ha bombardato la sua casa. E’ morta con la sua famiglia. Dopo che ho visto i pezzi del suo corpo sparsi per terra, dopo il dolore che ho provato, non permetterò mai più a me stesso d’amare.”

Vivi Ismael, e la guerra combattila con il tuo sogno.