martedì 16 febbraio 2010

Una rivoluzionaria


Il pavimento della cucina è coperto da uno sporco talmente antico che alcuni segni non se ne andranno mai, tatuati come sono nelle mattonelle. L’arredamento è povero: divano basso e sdrucito, cucinino provvisto di forno elettrico, frigo rumoroso, piccolo lavabo per lavare i piatti e i denti, sovrastato da una mensola traboccante di contenitori con spezie di ogni tipo. Al lato, una scala stretta di legno che conduce al secondo piano, alle due stanze da letto. Nell’altro spazio comune si entra da una porta al piano terra, superando un gradino di marmo. Quando piove, l’acqua sgocciola in casa dalle due aperture ai lati del tetto, qualche volta anche un uccello sbadato ci si infila. Per fortuna a Damasco non piove spesso. In questo periodo però fa freddo, siamo a gennaio. Nella piccola stanza con la porta chiusa c’è una stufetta elettrica che fatica a riscaldare l’ambiente. Tuncay, turco di Hantakya con origini arabe, gira lentamente il suo çay con la grazia naturale che possiede. È forse il quinto tè nel giro di un’ora che gli vedo sorbire, accompagnato da un'altra sigaretta. Yusuf, anche lui di Hantakya, legge raggomitolato sul divano poesie di Lorca. Rasha, l’anfitrione di casa, è seduta di fronte a me e mi versa il çay scuro in un piccolo bicchiere. Abitava sola fino a poco tempo fa, adesso Tuncay e Yusuf vivono qui, entrambi per studiare l’arabo. Hantakya, ciò che resta dell’antica e splendente Antiochia, citata nella Bibbia, è un borgo tra verdi montagne formicolante di vita, poco lontano dal confine siriano. Gli abitanti sono spesso bilingui, l’etnia difficile da classificare. Il territorio è Turchia, la cultura una sfumatura del passaggio tra gli arabi e i turchi. Fin da bambini i due ragazzi parlano arabo in famiglia, ma non l’hanno mai studiato, educati in scuole turche. Ora sono a Damasco per imparare la grammatica e la scrittura, studiano all’università locale. È per loro un modo di riscoprire, consolidare, un’eredità culturale che il confine turco, divisione amministrativa ed esistenziale, ha voluto seppellire. A Damasco hanno trovato Rasha, con cui è iniziata una convivenza, dividono l’affitto e si insegnano le rispettive lingue. Fra loro tre parlano arabo, con me i ragazzi parlano turco, e io e Rasha inglese. Siamo immersi in un incrocio, nel piccolo centro caldo creato da questa ragazza nella sua casa, a pochi passi da Baghdad street, vicino alle porte della città vecchia. L’ho conosciuta attraverso couchsurfing, un sito internet che mette in contatto chi cerca e chi offre ospitalità. Un modo di viaggiare tagliando le spese, e che fa entrare direttamente nel vissuto dei luoghi che si attraversano, senza mediazioni. In Siria è illegale, Rasha ci va utilizzando proxy server che aggirano i limiti imposti dal governo. Anche facebook e youtube sono vietati. Ma, insensibile ai divieti, Rasha ha trasformato la sua casa in un luogo di passaggio aperto, che vede viaggiatori di ogni nazionalità fermarsi, ripartire, e condividere con lei discussioni, informazioni e momenti di vita. Ci vuole un certo coraggio, dal momento che è una donna sola, in un quartiere conservatore, in uno stato fascista. La gente mormora ma lei non se ne cura. Il suo tempo, quando non lavora o studia, lo dedica a mettere in comune tutto ciò che sa sul suo paese con i viaggiatori. È una fonte inesauribile, consapevole dello stato delle cose, arguta e ironica, ribelle, saggia, e con un fondo di malinconia dove giace però un’imbattibile ottimismo. Ha occhi profondi e scavati dalle notti insonni a parlare e leggere, un corpo agile, la voce suadente e per me misteriosa e bellissima di un’araba. La madre è cristiana, il padre un ateo comunista, come anche lei si definisce d’altronde, che ha dato alla figlia il nome di Rasha in onore della Russia sovietica. Viene da un villaggio cristiano molto piccolo, al confine con l’Iraq, da cui si è spostata qui per fare l’università, Letteratura Inglese. Il padre ha avuto su di lei una grande influenza; quand’era piccola c’era in casa un busto di Lenin che lei osservava curiosa, il padre allora le disse che era una statua di suo nonno, morto ormai da tempo, e che poteva parlare con lui ogniqualvolta lo desiderasse. Lei instaurò con quella figura un rapporto intimo di confidenze che l’accompagnò per tutta l’infanzia. Anni dopo, scoprì dai libri scolastici che forse quell’uomo, Lenin, non era suo nonno, e anche se all’inizio ne fu intristita oggi ne ride e talvolta ancora si riferisce a lui come al caro “nonno Lenin”. Vie di fuga concesse all’immaginazione, qui in Siria dove all’immaginazione è stata legata una palla al piede.

Altro çay, ennesima sigaretta. Passiamo il pomeriggio così, Rasha non è mai stanca delle mie domande, e io sono troppo preso dai suoi racconti. “Bashar è un dittatore e la politica in Siria è una farsa” mi dice quasi inespressiva. Bashar al-Asad è il presidente siriano, figlio del defunto Hafiz al-Asad, dal 1994 e presumibilmente fino alla morte. “Quando Hafiz morì, fece in modo che la carica di presidente andasse al primo figlio, Basil, che morì lo stesso anno in un incidente d’auto … yani, il partito al potere è lo stesso da quarant’anni, il Baath, sono alawiti, e Hafiz semplicemente ha trasformato la presidenza in una carica ereditaria. Bashar a quel tempo studiava oculistica a Londra e non sapeva niente di politica. Si è ritrovato presidente da un giorno all’altro.”. “Ci sono le elezioni” ride “ma come ti ho detto non hanno valore. Votano minorenni, gente senza carta d’identità e non c’è alcun controllo. Nel mio villaggio ci sono stati più votanti del totale della popolazione alle ultime elezioni … quindi. Sui giornali scrivono che siamo una democrazia, per dimostrarlo ci paragonano agli Stati Uniti dove hanno due partiti, qui invece ne abbiamo sette, e per questo dovremmo essere più democratici! Ci sono anche due partiti comunisti …” gli occhi fissano il cucchiaino. Il culto del presidente Bashar è pervasivo, basta fare una passeggiata per accorgersene. La sua foto campeggia in ogni luogo, in tutte le dimensioni, negli uffici e nei negozi. Col braccio teso, mentre beve il tè, con gli occhiali da sole e la divisa militare. Ha del ridicolo, il suo volto è banale, grigio, l’espressione ebete sembra confermare che anche lui deve sentirsi fuori posto. Eppure è venerato, almeno in pubblico, e criticandolo apertamente si corrono dei rischi. Una volta ho chiesto a un ragazzo nel suq cosa pensasse di Bashar e lui ha sorriso entusiasta facendomi segno con il pollice in su. Allora ho insistito chiedendogli quale fosse la differenza tra l’attuale presidente e il padre. Mostrandomi il pugno chiuso dice “questo era Hafiz”, poi apre la mano come per dare, “questo è Bashar”, continuando a sorridere. Lo racconto a Rasha: “Certo, la gente pensa che poiché ha regalato case ai poveri Bashar sia più buono … pfu … è solo populismo, mantiene il popolo nella degenza e nell’ignoranza, fa leva su di loro per consolidare il suo potere, lo vedono come un leader quasi religioso, al di sopra dell’errore, anche perché presumere che sbagli è considerato tradimento. Sono questi i due pilastri del suo potere: una massa rinchiusa nella gabbia mentale della religione, e la paura che alimenta il governo nei confronti degli stranieri, degli occidentali e di Israele, creando uno stato di guerra permanente … che poi è ufficiale, noi siamo in guerra dal 1948, con Israele, c’è la legge marziale e i poteri straordinari per il presidente.” La società civile, questo miraggio nel deserto siriano, dov’è? “Fatica a sopravvivere, le gente fa tre lavori perché i prezzi sono alti e le paghe misere, non ha tempo per la politica. Manifestare? Serve l’autorizzazione governativa. Di solito permettono manifestazioni critiche con la politica solo per far convergere tutti in una piazza e arrestarli. Però il governo qualche volta organizza le manifestazioni … eh si, chiama la gente in strada per supportare i palestinesi, gli iracheni, i somali, ma yani per noi siriani non manifestiamo mai?! È di questo che abbiamo davvero bisogno”.


“Il problema è culturale. Accettiamo di essere sottoposti a leggi contro la dignità umana e la libertà d’espressione. Per esempio, un marito può ripudiare la propria moglie senza doverle garantire nulla, la lascia così, come gli pare, e magari ne ha due o tre di mogli. Chi è sorpreso a masturbarsi va in galera, ed è diffusa la delazione, anche senza prove. Persino il delitto d’onore è tollerato, non lo incitano certo, ma un padre che ammazza la figlia che ha perso la verginità prima del matrimonio in galera non ci va …. Voglio dire che sono le stesse donne a permettere ciò, c’è una schizofrenia sotterranea, una stasi imposta e assorbita, le strade per valorizzare le menti creative e i discorsi auto critici sono tutte ostruite. E quel che è peggio, anche da noi stessi.” Rasha parla liberamente della sessualità, sappiamo entrambi che ogni potere nella storia ha sempre esercitato in questo ambito il suo controllo più sottile e invadente: se si arrivano a disciplinare i corpi nella loro intimità, nelle loro reazioni emotive, si raggiunge lo scopo di soffocare l’immaginazione di alternative ai dati di fatto del potere. In Siria, la sessualità e la condotta individuale sono soggette al controllo della morale religiosa patriarcale, un insieme di permessi e divieti che si strutturano in regole coercitive il cui fondamento si suppone sacro. Diventa come un cerchio chiuso: l’interpretazione religiosa e l’uso strumentale che ne fa il potere. La verità è tutta qui, passato, presente e futuro, tutto risolto nel Testo, nell’interpretazione che si dà del Testo. Non è necessario andare oltre, non ha alcun senso sperimentare altri approcci e altre strade, poiché la perfezione è stata raggiunta nelle origini e non si deve far altro che imitarla. L’identità diventa succube della memoria, un suo riflesso, e gli strumenti che offre per la comprensione del reale sono miseri e granitici. Naturalmente, le condizioni di questa chiusura e stasi culturale sono mantenute, perseguite dalle istituzioni, culturali e politiche; esse utilizzano il Testo come legittimazione del potere, e le sue verità come verità del potere. Religione, politica, tradizione, si confondono e riducono fino a diventare limiti al cambiamento e ad una visione aperta a sollecitazioni eclettiche. È questo che Rasha vede come il problema attuale degli arabi, cristiani e musulmani. La difficoltà di creare cultura mescolando apporti diversi, esprimendosi in linguaggi nuovi, producendo sapere. Il potere teme il sapere, non è interessato all’individuo creativo, esso aspira alla massa, al numero in cui l’individuo sparisce, così da eliminare i rischi di contraddizione ai principi su cui poggia. L’ignoranza e il timore del cambiamento sono le vere benedizioni del potere. “ Mio fratello, che è cresciuto con me, è molto tradizionalista. Qualche tempo fa mi ha proposto un uomo da sposare, perché dice che è arrivato il momento, che ora ho dei pretendenti e non posso più rimandare … io gli ho detto di farsi gli affari suoi, che il corpo è mio e sono io a decidere … non voglio sposarmi, soprattutto non con qualcuno che nemmeno conosco. Ma la questione è che certi argomenti non si mettono in discussione apertamente. Non ho nessuna amica con cui parlare liberamente del sesso, per loro è un affare di famiglia non un’esperienza individuale. È frustrante. Certe volte penso che hanno paura di ribellarsi, altre volte che si adattano, che iniziano a immaginare la loro vita all’interno di questa visione, e ne diventano partecipi, pronte a riprodurla ancora … Ma la contraddizione è evidente, vanno a comprarsi intimo costosissimo che non mostreranno mai fino al matrimonio, passano le giornate dal parrucchiere e poi si coprono con il velo oppure depilano tutto il corpo e inorridiscono perché io non lo faccio. Non sanno perché fanno quello che fanno, seguono la convenzione, non si rendono conto che la loro vita è sottomessa alla gratificazione del maschio!”. Rasha apprezza il dubbio, nutre un’accesa curiosità per ciò che non conosce, che sia la sessualità o la cultura occidentale. “I libri migliori che ho letto me li sono trovati da sola … all’università i metodi d’insegnamento si basano sulla memorizzazione, non c’è critica né opinioni, bisogna bersi tutto. La cosa assurda è che gli studenti più appassionati se ne vanno, borse di studio permettendo, perché qui le loro potenzialità sono umiliate”. Sembra quasi che il regime spinga i migliori ad andarsene. In fondo, le menti geniali sono il primo nemico dell’ordine costituito, soprattutto quando quest’ordine è un sistema chiuso che ha in sé tutta la verità. “L’occidente poi … quanti ne ho visti di viaggiatori che venivano in Siria a cercare l’oriente, le tradizioni … la colpa è anche loro! E dei loro governi. Non sono interessati allo stato di minorità del popolo siriano, i diritti umani sono un affare politico che mettono in campo quando hanno delle convenienze, guarda cosa succede in Palestina. E l’inferno che hanno fatto in Iraq? ... Per l’occidente siamo un mercato, ci offre le sue invenzioni e ce le fa sembrare indispensabili, ma non ci invita a possedere il cervello che le ha inventate e non ci aiuta a svilupparne uno. Siamo strumenti, o nemici su cui lanciare bombe. Hanno bisogno di noi per sfruttarci o distruggerci.” L’ipocrisia dell’Europa, a vederla da qui, è evidente. Nella classe intellettuale si tende ad attribuire ai siriani, come agli arabi in generale, un’ ideologia dell’arretratezza ammantata di fascino. La tipologia di certi discorsi, sull’eredità culturale, le origini, la tradizione, mirano a lasciare l’arabo confinato nel passato: puro e immune dalla decadenza o chiuso nel suo mondo arretrato, a seconda dell’uso contingente dettato da necessità politiche ed economiche. Quando si sente parlare di dialogo con gli arabi, con chi i governi europei vogliono dialogare? Hanno una vaga idea della complessità e varietà del mondo arabo? E, anche più importante, sono pronti ad andare fino all’estreme conseguenze dei valori che propugnano, accettando di basare il dialogo sul riconoscimento del diritto alla vita di tutti i popoli? Dei palestinesi come degli israeliani? Sembra che l’Europa sia incapace di fare scelte politiche e sviluppare un pensiero in maniera autonoma dall’amministrazione statunitense. Rasha non ha di questi pregiudizi, ha assorbito molto dalla cultura europea, libri, cinema, musica, idee. Data la sua conoscenza di inglese e arabo può attingere alla produzione culturale di questi due mondi con disinvoltura. Paradossalmente ha una visione più ampia di uno studente europeo che studia filosofia limitandosi alla produzione occidentale, anche se lei vive nella soffocante afasia culturale siriana.

Alla radio stanno passando Fairouz, cantante libanese, un mito in tutto il mondo arabo. È sulle scene da quarant’anni e gli appassionati la chiamano la nostra ambasciatrice presso le stelle, per il suo timbro caldo e sofferente che ti porta lontano. Con lei è cresciuta più di una generazione ed i siriani la prediligono particolarmente. Rasha canticchia con gli occhi socchiusi, mentre scalda una fetta di pane sottile sulla stufetta. Tuncay porta sulla tavola hommos e muttebel, due specialità siriane di cui sono ghiotto. Ceci e melanzane con yogurt e cumino, schiacciate a crema. Ad accompagnarle, l’immancabile tè. Mangiamo in silenzio, Fairouz riempie la stanza, ci scambiamo sguardi che non hanno lingua, vicini e al di là delle difficoltà che conosciamo bene. Fuori da questa porta molti dei nostri discorsi sono impensabili, eppure li portiamo sulle strade semplicemente continuando a vivere, dopo e durante. Rasha desidera viaggiare e conoscere il mondo, ma il suo cuore è legato alla Siria, lei è l’olio che tiene accesa la fiamma. Il problema sono i visti, i confini e il denaro. Il suo primo viaggio lo farà a Gaziantep, in Turchia, quando la ospiterò a casa mia. C’è una poesia che mi ricorda i suoi sogni, l’ingiustizia, la speranza. La scrisse Mohamad al-Maghout, un poeta siriano che conobbe la prigione e l’esilio, senza mai abbandonare le sue due passioni, ridere e fumare. Nella poesia c’è qualcosa di universale, tutti gli uomini la possono comprendere. “Oh! Il sogno, il sogno!/ il mio robusto carro dorato è in panne/ le sue ruote sono sparse dovunque come zingari./ Una notte sognai la primavera/ e al risveglio fiori erano sparsi sul mio cuscino./ Ho sognato una volta del mare/ e al mattino il mio letto traboccava di conchiglie e pinne di pesce./ Ma quando ho sognato la libertà/ lance acuminate circondavano il mio collo per darmi il buongiorno/ Da ora in avanti tu non mi troverai nei porti o fra i treni/ ma lì … nelle biblioteche pubbliche/ addormentato sulle mappe del mondo/ (come l’orfano dorme sui marciapiedi)/ dove le mie labbra toccano più di un fiume/ e le mie lacrime scorrono/ da continente a continente.”