mercoledì 2 giugno 2010

La Turchia alza la voce


L’aria a Gaziantep è tesa. Come in molte altre città della Turchia, associazioni per la difesa dei diritti umani, gruppi religiosi e semplici cittadini, hanno gli occhi puntati su Gaza e Israele e sull’evolversi degli avvenimenti. Poche ore dopo l’attacco del commando israeliano alla Freedom Flottilla in acque internazionali, nella piazza principale di Gaziantep i baracchini messi in piedi per la festa d’estate sono stati avvolti da bandiere palestinesi, tavoli di legno hanno preso il posto delle griglie dei kebab, e una folla mormorante discute i fatti e le opinioni, con le orecchie incollate alle due casse che trasmettono news 24 ore su 24. Si è aperta una ferita profonda fra i due stati, unanime dal mondo politico all’uomo della strada, che avrà ripercussioni sugli assetti in medio – oriente e sui processi di pace in atto nella regione, questa l’idea dominante. Nell’attacco sono morte nove persone, tutte turche secondo le informazioni più recenti. A bordo dei tre battelli, sponsorizzati dal governo turco, c’erano aiuti umanitari diretti alla popolazione di Gaza, che da tre anni sopravvive a stento all’embargo deciso da Israele in seguito all’elezione di Hamas. Tra i circa seicento passeggeri, decisi a forzare il blocco in maniera pacifica ma determinata, c’erano attivisti, giornalisti e diplomatici da 35 paesi, in maggioranza dalla Turchia. I dettagli sulla dinamica dell’attacco sono ancora incerti e verranno chiariti nell’inchiesta invocata dall’Onu e dalla comunità internazionale, ma alcuni dati di fatto incontestabili spiegano la durezza delle reazioni, soprattutto turche, e il gelo che circonda in questi giorni Israele. Primo, l’abbordaggio del traghetto turco “Mavi Marmaris” è avvenuto in acque internazionali, a 70 miglia dalle coste di Gaza, per mezzo di motoscafi militari e soldati calati dagli elicotteri, quindi fuori dalla giurisdizione di Israele. Secondo, l’esercito israeliano assalta, anche se indirettamente, un paese che fa parte della Nato, la Turchia, e lo fa causando la morte e il ferimento di individui con intenzioni pacifiche. Il giorno dopo l’attacco, tutti gli editoriali della stampa israeliana non si sono nascosti la verità, concordi nel giudicare l’immagine internazionale del paese irrimediabilmente compromessa. Anche l’attenzione nei confronti delle condizioni di vita dei palestinesi di Gaza è di nuovo al centro dei dibattiti, e la vecchia scusa del “diritto alla difesa”, secondo molti, ora non funzionerà più come fonte legittimante delle operazioni militari unilaterali israeliane. ”Ieri non c’era nessuno sul pianeta, nessun giornalista o analista, tranne che il suo coro di leva, che avrebbe potuto dire una parola buona sul letale abbordaggio” ha scritto Gideon Levy su Haaretz. In Turchia si attendeva trepidanti che il premier Erdogan riferisse in parlamento. Nel suo discorso, che risuonava in ogni piazza e da ogni casa, ha saputo tastare il polso del paese, alzando la voce e lanciando minacce neppure troppo velate. “ Hanno mostrato ancora una volta al mondo che sanno bene come ammazzare le persone. Israele non può in alcun modo legittimare questo omicidio, non potrà lavare via il sangue dalle sue mani, questo è un atto di terrorismo di Stato. La Turchia non passerà su questo massacro, devono capire che l’ostilità della Turchia è altrettanto forte quanto il valore della sua amicizia” ha tuonato Erdogan. Inoltre, ha richiesto il rilascio immediato di tutti gli attivisti in mano israeliana e l’apertura di un’inchiesta dell’Onu sull’accaduto. Anche se l’ambasciatore turco a Tel Aviv è stato richiamato, non si può parlare di definitiva rottura delle relazioni diplomatiche tra i due paesi. Erdogan ha voluto precisare come finora la Turchia ha utilizzato tutti i mezzi forniti dalle leggi internazionali e dalla diplomazia nelle sue relazioni con Israele, e continuerà così nei giorni a venire.

È un nuovo scenario quello che si sta costituendo in medio – oriente, e se colleghiamo eventi precedenti agli attuali sviluppi, risulta chiaro un nuovo equilibrio tra le forze attive nella regione. Fino a cinque anni fa sarebbe stata impensabile una presa di posizione della Turchia così netta e soprattutto autonoma dagli Stati Uniti. La decennale sudditanza dei precedenti governi turchi nei confronti degli americani, e della loro alleanza con Israele, era dovuta a una sostanziale marginalità nel consesso dei paesi della Nato (di cui la Turchia è l’unico membro tra i paesi musulmani) e a uno scarso potere di influenza negli affari medio orientali su cui fare leva. Per un lungo periodo, le relazioni dei turchi con i vicini Siriani, Iraniani e Iracheni andavano da una pavida indifferenza ad un’aperta ostilità, e ciò per ragioni storiche di inimicizia tra turchi e arabi e tra musulmani sciiti e sunniti, e per la volontà dei turchi di mostrarsi più simili all’occidente. Molto è cambiato nei quasi dieci anni di governo dell’AKP, il partito Giustizia e Sviluppo, di radici islamiche. Il super attivo ministro degli esteri Ahmet Davutoglu ha inaugurato una politica di conciliazione con i vicini, durante la quale sono state intessute nuove alleanze politiche e collaborazioni commerciali. L’apertura dei confini tra Turchia e Siria, gli investimenti in Iraq voluti dal governo, le visite reciproche di Erdogan e Ahmadinejad nei rispettivi paesi e la recente mediazione turca sul nucleare iraniano, sono alcuni dei punti di rottura con il passato e la celebrazione del nuovo ruolo che la Turchia vuole in medio – oriente. Se consideriamo la perdita di influenza a livello globale degli americani per il dissanguamento politico sofferto in Iraq e per l’emergere di potenze come Russia e Cina, risulta chiaro come si stiano formando nuovi margini di autonomia per l’azione di paesi che rifiutano il beneplacito dell’America nelle loro decisioni. Indubbiamente, la Turchia è uno di questi paesi, che sfrutta abilmente la sua posizione strategica e le relazioni privilegiate con l’occidente e il mondo musulmano per proporsi come nuovo mediatore. Israele si è giovata per un lungo periodo dell’alleanza con la Turchia, l’unico tra i suoi vicini a mostrarsi amichevole. La collaborazione militare tra l’esercito turco e israeliano risale al comune sentimento anti – islamico dei due eserciti, ed è stata sostanziata da scambi di materiale bellico e accordi strategici, tuttora in corso. Dal 2000, sono state abbattute le tasse doganali tra i due paesi, e gli scambi avvengono nell’ambito di una zona di libero commercio. I turchi si erano posti anche come mediatori tra israeliani e palestinesi, interessati ad una risoluzione che allentasse le tensioni nell’area. Negli ultimi anni, però, la perdita di influenza dell’esercito nella politica turca, il nuovo rapporto con i vicini musulmani inaugurato dall’AKP e le sconsiderate azioni militari di Israele, hanno deteriorato il rapporto tra i due stati. Alla fine del 2009, l’attacco militare israeliano a Gaza sollevò aspre critiche in tutta la Turchia e una netta condanna da parte di Erdogan dell’accaduto, che definì “crimine contro l’umanità”. Un'ulteriore serie di incidenti diplomatici, come le parole dure pronunciate al forum economico di Davos dal primo ministro turco nei confronti delle esternazioni di Peres e l’umiliazione patita dall’ambasciatore turco a Tel Aviv nel gennaio 2010, hanno diffuso fra i cittadini turchi una ostilità che con gli eventi dell’attacco alla “Freedom Flotilla” ha raggiunto la sua massa critica.

Molti turchi considerano l’azione dell’esercito israeliano un attentato alla Turchia e la dimostrazione della non volontà di Israele di risolvere la questione palestinese in maniera pacifica. La Turchia questa volta non ha atteso i movimenti degli americani, e si è lanciata in una condanna senza mezzi termini, usando parole pesanti, sinistramente simili a quelle che provengono dai leader iraniani. Il pericolo per Israele proviene dal perdere un alleato prezioso nella regione, che potrebbe trasformarsi in un nemico temibile. Per quanto sembri poco probabile un allineamento della Turchia con l’Iran, poiché l’interesse principale dei Turchi è allontanare lo spettro di una guerra dai propri confini e non alimentarlo, ora Israele è più solo. La cocciuta volontà di impedire il controllo dei propri arsenali atomici, recentemente reiterata, e lo spregio delle leggi internazionali, stanno isolando Israele anche dalla comunità internazionale. Gli Stati Uniti hanno cercato di ridimensionare la condanna della Turchia, suggerendo all’alleato che non è in questo modo che si troverà una soluzione alla difficile situazione di Gaza. Ma anche le loro parole rischiano di cadere nel vuoto, nel momento in cui nuovi attori internazionali, come la Turchia e l’Iran, raccolgono la sfida di creare nuovi centri rilevanti nell’ordine mondiale, decidendo di agire in maniera più autonoma. Due fattori sono a mio avviso fondamentali: nell’affrontare la questione del nucleare iraniano da parte degli americani, è necessario prendere in considerazione il potenziale nucleare di tutta la regione, compreso quello degli israeliani, nel tentativo di contenere la proliferazione. Il metodo dei due pesi e delle due misure ha fallito. In secondo luogo, la comunità internazionale deve impegnarsi seriamente e in maniera congiunta per costringere Israele a eliminare il blocco da Gaza e fermare la costruzione di insediamenti in Palestina; anche un bambino capirebbe che la pressione di Israele sugli arabi palestinesi non fa che alimentare il consenso intorno a formazioni estremiste come Hamas (che è stata eletto democraticamente dagli abitanti di Gaza), e allontana gli alleati o chi tenta di seguire vie democratiche alla risoluzione. In definitiva, deve cambiare l’intransigenza di Israele, sia per motivi pratici di constatazione dei nuovi equilibri regionale e mondiali, sia per motivi umanitari, per non essere considerati, dalla Storia, come i Nazisti della nostra epoca.

Intanto, a Gaziantep, come a Istanbul, ad Ankara, e in tutte le maggiori città turche, le bandiere palestinesi continuano a sventolare da ogni finestra. Oggi ci saranno i funerali di Stato per le vittime degli attacchi ai battelli pacifisti, un momento di lutto nazionale che avvicina ancor di più i turchi ai palestinesi e che pone un’altra pietra nella memoria impossibile da sradicare.