mercoledì 27 ottobre 2010

lunedì 11 ottobre 2010

Belgrado, un giorno di sole e distruzione


Ho gli occhi aperti dal mattino presto, finalmente svegliato non dai piedi gelati ma dal sole obliquo sulla mia faccia. Dalla strada non un suono giunge, mentre aspetto si scaldi l’acqua del tè mi chiedo dove sia finita la lunga fila di auto clacsonanti che mi ha strappato un sorriso ad ogni risveglio questi ultimi giorni, facendomi venire in mente il traffico di via Duomo a Napoli. Mi affaccio, via Admirala Geprata è deserta, alle due estremità poliziotti in assetto da guerra in doppia fila, con i caschi lucenti e i manganelli riposti. Benvenuto al giorno dei colori e della libertà d’espressione, dell’orgoglio di sentirsi diversi, ma più che altro della possibilità di esprimerlo senza subire pestaggi: il Gay Pride di Belgrado. Hanno detto in tv che più di seimila poliziotti sono stati schierati lungo tutto il percorso della manifestazione e in diversi punti della città, collegati ad unità mobili per spostarsi tempestivamente dove richiesto, e appoggiati da elicotteri, hammer corazzati e reparti dell’esercito. Questa volta lo Stato serbo si è preso la responsabilità della parata dispiegando tutte le sue forze, memore dei linciaggi del 2001, il primo tentativo di un Gay Pride nella città, e dell’umiliazione governativa del 2009, quando la manifestazione fu prima spostata e poi cancellata dagli organizzatori per l’impossibilità di garantire la sicurezza dei manifestanti. Dopo una doccia veloce, cammino allegro verso il parco Manjez, punto di partenza della parata, incrociando cordoni di polizia in ogni strada; pochi i passanti, un po’ perché è domenica, un po’ perché molti belgradesi si aspettano il peggio.

Un amico che doveva raggiungermi mi chiama angosciato dicendo che non può uscire: alcuni gruppi di ragazzi stanno ingaggiando uno scontro con la polizia proprio nella sua strada, hanno già dato alle fiamme due auto, lui per ora resta barricato in casa. L’atmosfera diventa ancora più pesante quando degli agenti mi controllano diverse volte i documenti, mi perquisiscono e fanno domande, prima di lasciarmi entrare nel parco dotato di un braccialetto e di un adesivo rosa di riconoscimento. Nel giardino sembra di essere in un sogno, la musica alta manda a ripetizione hit glam e rock anni settanta e ottanta, una miriade di colori festanti, sorrisi, coppie gay e etero, hippies giovani e anziani, eleganti signori in doppiopetto, gruppi antifascisti e organizzazioni dei diritti umani, delegazioni dai paesi balcanici e dall’est Europa, si preparano a sfilare. Conosco diversi ragazzi e ragazze belgradesi, sono in fibrillazione, continuano a dirmi come questo sia un momento storico, finalmente il sospirato Gay Pride può aver luogo senza paura degli estremisti di destra e degli hooligan che infestano la città. Sorridiamo calorosi, ma siamo tutti coscienti di come questo parco sia un ghetto presidiato dall’esercito, se non ci fossero le armi a difenderci non ce la passeremmo così bene, e un certo timore resta sospeso nell’aria pensando al momento in cui usciremo di qui. Sul palco allestito per l’occasione prendono la parola rappresentanti dell’OSCE e del parlamento europeo, e il ministro serbo per i diritti umani e delle minoranze Svetozar Ciplic, fischiato per la sua tiepida difesa dei diritti della comunità LGBT. Molti rappresentanti diplomatici europei sono mescolati alla folla, visibilmente compiaciuti. Si è letto spesso ultimamente nei giornali critici con il governo di Tadic di come il Gay Pride sia stato per molti più un evento “politico” allestito per l’Europa, un “test di democrazia” agli occhi degli stranieri, che la vera espressione dei sentimenti popolari. In effetti si percepisce un certo conservatorismo nella società serba. Ieri hanno manifestato pacificamente il proprio dissenso alla parata molte famiglie e fedeli della chiesa ortodossa, appoggiati da alcuni pope dalla barba lunga, brandendo croci di legno e additando gli omosessuali come “sodomiti”. Proteste contigue ma diverse dagli estremisti del Gruppo 1389 e di Obraz (Dignità) che hanno minacciato “sangue fino alle ginocchia” e “morte ai gay” sui muri della città e nei loro bollettini. Con lo spiegamento odierno di forze sembra davvero che il governo voglia dare una svolta al clima di diffusa impunità per chi aizza all’odio per il diverso in Serbia.


Usciamo scortati da ogni lato, le bandiere della pace sventolano imperiose nel sole di Belgrado. Saremo non più di mille, tutti stretti per farci coraggio ora che siamo in strada. Ai lati, nonostante la dissuasione della polizia, ragazzi incappucciati ci osservano aggressivi mostrandoci il dito medio. Passando vicino ad una chiesa osservo un piccolo gruppo di fedeli che verso di noi intona inni sacri con le immancabili icone, profondendosi in teatrali segni della croce, guardato a vista da un cordone di agenti. Sulla strada Nemanjina il corteo incrocia i due scheletri degli edifici militari bombardati dalla nato nel 1999, un cupo sfondo all’allegria che ci attraversa. La parata dura pochissimo, dopo neppure due isolati, percorsi in mezz’ora, arriviamo al Centro Culturale Studentesco e lo invadiamo pacificamente prendendo parte alla festa organizzata all’interno. Musica disco, birre e danze liberatorie smorzano l’ansia, la Gay Parade è andata bene, le notizie dalla città sono inquietanti ma nessun manifestante è rimasto coinvolto. Nel primo pomeriggio la festa continua ma comincia l’”evacuazione”. La polizia ha pensato a tutto, è pronta a caricare piccoli gruppi su dei camioncini utilizzati per il trasferimento di detenuti, per guidarli verso un luogo sicuro. Poco lontano da qui, alcuni sciacalli non attendono altro che qualche incauto partecipante si avventuri da solo verso casa. Entro in un mezzo insieme a una decina d’altri, stiamo stipati come sardine, non c’è luce e solo un flebile soffio d’aria entra dal finestrino. La situazione è grottesca, siamo qualcosa a metà tra prigionieri e minoranza a rischio, non so neppure esattamente dove ci conducono. Dopo aver guidato per un quarto d’ora, finalmente aprono il portellone per farci scendere davanti ad una centrale di polizia a Novi Beograd, apparentemente lontano dagli scontri.


Decido di camminare verso le zone del centro, ho sentito che sono in corso varie guerriglie in diversi punti della città. All’incrocio Terazije c’è un folto gruppo di ragazzi che sta devastando vetrine e auto. I passanti guardano curiosi, qualcuno si rifugia nei pochi negozi aperti. Un uomo mi dice che questa situazione gli ricorda la guerra, è di Sarajevo. Le facce di questi ragazzi, additati a seconda dei casi come ultranazionalisti, naziskin, hooligan o semplicemente facinorosi e teppisti, sono tirate, ma sembrano divertirsi distruggendo e creando caos. Se avessero un gay tra le mani probabilmente lo ammazzerebbero, eppure sono giovani, molti di loro hanno meno di vent’anni, alcuni sono con le ragazze che li osservano da poco lontano. C’è anche qualche veterano più vecchio, con anfibi e testa rasata. Decidono di sfondare la vetrina del megastore della Nike, si passano i palloni e inscenano partitelle improvvisate tra le pietre e i vetri rotti. Nemmeno due minuti dopo arrivano in corsa i poliziotti in assetto antisommossa, distribuendo colpi e calci e arrestando un paio di manifestanti. Mi trovo in mezzo agli scontri e mi salvo dalla polizia solo perché resto fermo e non corro, dimostrando così di non essere fra i violenti. I ragazzi, vestiti con tute acriliche e scarpe da ginnastica alla moda, scappano in ogni direzione, fermandosi un istante solo per lanciare pietre agli inseguitori. Alla fine, il bilancio degli scontri in città sarà di centoventiquattro poliziotti e diciassette rivoltosi feriti, duecentoquattro arresti e un milione di euro di danni stimato. Gli estremisti, si dice, erano più di seimila. Sui notiziari locali e internazionali saranno gli scontri a tenere banco, facendo scivolare in secondo piano la ben riuscita parata dell’orgoglio Gay. Anche alcuni esponenti dei partiti dell’opposizione riaffermano le loro critiche nei confronti della decisione del governo di tenere la parata pur sapendo che ci sarebbero state proteste violente. Per molti qui in Serbia, come per lo stesso sindaco di Belgrado, la sessualità è un affare da tenere dentro le quattro mura domestiche. Torno a casa, un po’ angosciato. Come me anche qualcuno degli “estremisti” scampati all’arresto starà rincasando, forse in una periferia tra campi brulli e cemento, in una famiglia che non gli dà molto ascolto, troppo presa a venire a capo delle spese o troppo assorta davanti alla tv. Ho la sensazione che i gay c’entrino poco con la rabbia e l’odio che si sono visti per le strade di Belgrado; oggi sono stati loro l’obiettivo, domani possono esserlo i musulmani, i kosovari, le donne emancipate, i venditori ambulanti, gli immigrati. Per una parte della generazione serba cresciuta a pane e tifo calcistico, infarcita di spot televisivi e di slogan cetnici della “Grande Serbia”, con poche prospettive davanti e molti dilemmi irrisolti dietro, l’esplosione di rabbia mi sembra più una dimostrazione disperata di presenza nel mondo.