domenica 11 ottobre 2009

La vita vista da Gaza

Nelle notti turche ad Istanbul, racchiusi in una stanza anonima del campus Sabanci, sperso in mezzo ad aride piane dell’estrema periferia est, iniziavamo a raccontarci di noi lentamente. Qualcuno occupava il silenzio con poche parole più gravi, in attesa lì da qualche parte, e gli altri si disponevano ad ascoltare: era il momento di una storia. Questo quando non ridevamo sguaiati appresso a frammenti di cultura pop, bevendo una birra o infiniti çay, oppure quando non organizzavamo uno scherzo o un colpo di genio per risollevare le serate degli studenti, “to arrange” nel nostro gergo. Ma le storie, prima o poi, venivano. Quando eravamo soli noi tre, io Yildirim e Ismael, rollando l’ennesima e aspettando il fare del giorno, coi gatti che entravano dalla finestra e i vialetti del campus vuoti e spettrali. Allora qualcosa si sbloccava e in inglese, la lingua franca della nostra amicizia, ci trasmettevamo ciò che giace nel fondo, la nostra personale vicenda che, in un modo o nell’altro, ci aveva condotto fin lì.


“Nessuno può dire che cosa sia giusto fare, capisci, non esiste! Ci puoi sbattere la testa quanto vuoi, non lo saprai mai, alla fine è arbitrario, il giusto semplicemente non c’è”. Non lo dice con leggerezza Ismael, c’ha ragionato parecchio, e sempre scivolando in un vuoto d’amarezza. Per lui la differenza con cui ogni giorno fa i conti, ciò che separa il “fare del bene” dal “fare del male”, è una linea sottilissima, talvolta inesistente. Lui è di Gaza, nato e cresciuto nella prigione a cielo aperto più grande del mondo. Gaza, territorio occupato, terra fertile e assolata, cuore di Palestina, mucchio di vite in ostaggio, ferita aperta e afonia del discorso, casa, anche se bombardata. Gaza, dove un mattino puoi svegliarti e scoprire di aver perso un parente o un amico, o puoi non svegliarti mai più. Gaza, dove sei così abituato a vedere gente in divisa coi mitra o coi tank puntati su di te, che ti domandi innocentemente perché non dovresti armarti anche tu. Ed è questo che ossessiona Ismael. Uccidere è male, dice la gente, ma se uccido per difendermi e per vendicarmi, e se attorno a me il bene senza ombra di dubbio sembra questo, cos’è il mio agire allora? Quando mi oppongo, quando resisto, convinto di lottare per la giustizia, supportato e stimato dai miei fratelli, contro una potenza imbattibile e feroce, quando mi lancio verso una morte certa ma che ha l’onore di un sacrificio per il mio popolo, e non per qualche dio, chi può dirmi che sto facendo il male? A questo punto, al livello della polvere in terra palestinese, tra le macerie e i sogni infranti, la guerra diventa un imperativo morale. E’ Resistenza, “cacciata dell’invasore”, è l’”ora” in cui si è chiamati a testimoniare il bisogno di non avere niente da rimproverarsi di fronte alla storia e di fronte alla propria coscienza. É dignità e orgoglio ferito, materiale necessità di continuare ad avere fiducia in qualcosa, per trovare la forza di agire, di nutrirsi, di lavorare, e per non crollare nell’inazione disperata. Contro tutte le logiche tattiche, che ti danno inesorabilmente sconfitto, contro la solitudine e il silenzio del mondo, contro una contro-morale che ti vuole supino attore di una tragedia scritta da altri. Poco importa che hai i giorni contati, “ammazza anche un solo fottuto soldato israeliano, e che tutto vada in malora”. Almeno, non dovrai più scegliere.


Eppure, capita che crescendo con la morte di fianco, dopo che la conosci come una compagna ghignante, inizi ad essere curioso di altre possibilità potenziali concesse alla vita. Combattere ha il suo senso, ma anche costruire lo ha. C’è il vasto mondo fuori dalle sbarre, lontano dai check point ci sono cose da imparare e persone da conoscere, e forse, nel futuro, una Gaza migliore, un Israele più umano. Puoi crederci ancora che vale la pena di respirare e di sforzarsi. Fra il dolore e la distruzione ciò che permette alla speranza di sopravvivere è un sogno che è riuscito chissà come a resistere al fosforo bianco e ai missili di Tsahal. E’ l’immaginazione di un’alternativa al sangue e alla morte cui sei stato istruito a dovere fin dall’infanzia da dati di fatto irrefutabili. E’ una possibilità che sembra folle perché non istantanea, e quindi passibile di non riuscire, ma che si fa strada dentro di te fino a maturare in una scelta. Ismael ha scelto di studiare, con tutte le sue forze. E di questa scelta se ne deve convincere ogni giorno, ad ogni nuova notizia di strage nella sua terra, ad ogni comunicazione con la famiglia in patria che gli racconta un’umiliazione o un lutto. Ancora non sa se è giusto, più giusto che combattere, se lo domanda e non trova una risposta convincente. Sa però che non vuole cedere: conquisterà conoscenza e denaro, e tornerà a casa. Vuole costruire a Gaza un centro polifunzionale per i giovani, qualcosa che lì ancora non esiste. Un luogo dove possano approcciarsi all’informatica e alle lingue straniere, dove possano mettersi in contatto col mondo esterno, dove fare musica, arte, lavori manuali non finalizzati alla sopravvivenza, ma orientati allo sviluppo dello spirito, e dove riunirsi, scambiarsi idee, divertirsi. Studia computer sciences, una materia “pratica”, come ama sottolineare, e la sua testa pullula di idee eccezionali da applicare, ottime per creare servizi utili per le persone e per le aziende che gli daranno lavoro. E’ questa l’alternativa che insegue, ciò che finora l’ha trattenuto dall’imbracciare un fucile.


Ha cervello il ragazzo. Cresciuto forte e sano da una madre che è già santa, dopo dodici figli tutti istruiti o in procinto di, tirato su con il cibo genuino di pochi campi ancora produttivi, studiando alacremente ispirato dai fratelli più grandi, tutti dei mezzi geni prodotti dalla necessità. Sono sette fratelli e quattro sorelle. Il maggiore è negli Stati Uniti dove, dopo una laurea in architettura, guadagna finalmente bene e può aiutare la famiglia. Uno vive e lavora in Giappone, un altro si è sistemato in Svezia, e ognuno fa il possibile per sostenere i rimasti a casa. Pensare che il padre e la madre hanno iniziato poverissimi, si mangiava un pane diviso e un pomodoro a testa, lavorando mattina e sera, spremendosi in sforzi inumani, con il rischio perenne di perdere tutto in un istante. Ma, chissà se per fortuna o per destino, li hanno cresciuti e addestrati bene al mondo. Nella sua famiglia ci sono i semi grazie ai quali Ismael ha optato per il lavoro duro, piuttosto che per la guerra atroce. Io ho smesso di chiedergli se crede finalmente sia giusto, restiamo a fissare il vuoto insieme, a quel punto, tirando delle somme ognuno per conto suo, e che non sono mai bilanciate. E’ già incredibile che sia arrivato fin qui, a Istanbul. Un anno e mezzo fa, grazie ai suoi sforzi e alla sua intelligenza è riuscito a vincere una borsa di studio per un semestre all’estero, nella migliore università della Turchia. Mi assicura, con un dispiacere che non ti spieghi immediatamente, che non è facile quando il 100% degli studenti fa domanda per andare dovunque, per fuggire. Devi essere il migliore, e ancora non basta. Ti devi far valere in una competizione forsennata, e lo devi fare contro i tuoi fratelli. Per questo nemmeno puoi dirti felice quando finalmente accettano il tuo application form, non te la puoi godere quella gioia così comune per tanti europei, consapevole dei tuoi amici costretti a rimanere, della famiglia che lasci sapendo che ha bisogno di te, e della lotta quotidiana a cui volti le spalle, inseguendo un futuro diverso, immaginato. E inoltre, l’Europa ti paga l’università, non ti tira fuori da Gaza, quello è affar tuo.


Dopo la conquista del posto in graduatoria, comincia l’avventura più incredibile nella vita di Ismael, i due mesi che l’hanno cambiato per sempre. Sa che deve lasciare la Palestina a tempo indeterminato, i suoi fratelli non sono mai tornati a casa prima di aver completato il ciclo di studi, chi cinque chi sei anni, perché se riesci a uscire poi è altrettanto difficile rientrare, per non parlare di partire di nuovo. Ciò che a me, da italiano in Turchia, sembra normale, “magari a Natale torno per le feste”, a lui è negato a priori. Nel momento in cui la borsa è sua e tutto è deciso, sa che non esistono agenzie di viaggio a cui rivolgersi per arrivare a Istanbul, ma che il primo passo è al contrario: deve andare a sud, verso l’Egitto, ad attendere al confine non sa quanto: finché quel muro armato si aprirà per qualche momento e lui potrà passare. Il viaggio inizia dagli addii. Ha stretto così forte la madre fino a farsi male, e se lei non l’avesse scacciato chiudendo gli occhi in lacrime, forse non sarebbe partito. Insieme al fratello sono arrivati al confine, per bagaglio pochi indumenti, i soldi necessari nascosti addosso e gli importantissimi documenti, tra cui il passaporto palestinese. Due settimane hanno bighellonato lui, il fratello e un amico che iniziava lo stesso viaggio, attorno ai soldati egiziani, alla ricerca di notizie, di novità, aspettando di passare. Non è piacevole vedere i vicini fratelli musulmani con le stesse facce truci e indifferenti che conosci bene, un paese che si dichiara amico dei palestinesi, ma che non fa nulla per rendergli la vita più facile. Attendono in centinaia ammassati al confine, un segno che dia il via alla fuga in avanti, una crepa nel blocco, tutti perennemente attenti. E’ una sfida che sfibra, che toglie la salute, sapere che in un qualsiasi momento lo spazio si aprirà e tu devi essere pronto. Guardavano tutti, ed ecco che il momento è arrivato, le difese si aprono, la massa si muove. Nessuno sa perché, potrebbe essere un punto critico raggiunto dalla folla che viene diluita concedendo il passaggio a una parte, o un momento di confusione tra i ruoli dei soldati sfruttata dall’organizzazione spontanea di profughi troppo stanchi, tant’è che bisogna correre e passare, ora o mai più. Ismael ha il tempo di guardare un’ultima volta il fratello, che gli urla solo “Va!”, prima di costringere le sue gambe esitanti a dare fondo alle energie, a fuggire più in fretta dei soldati che agguantano a casaccio bloccandoli a terra i più sfortunati, a fare più in fretta degli altri, a superare quella fottuta linea della sua amata terra. Fino a farcela.

Anche l’amico ha avuto la stessa fortuna, si abbracciano euforici, è il primo passo, ora sono in viaggio. Davanti a loro il deserto egiziano senza fine è una visione per nulla mistica, centinaia di chilometri di nulla a perdita d’occhio, senza strade o cartelli, solo sabbia anonima e terribile. Prossima tappa: Il Cairo, ma come fare? Si infilano nel camioncino di un beduino che conosce il deserto ed è disposto a trasportarli previo pagamento. Salgono in venti dove c’è posto solo per cinque, e per ore e ore viaggiano nella semioscurità, con un unico finestrino che provvede all’aria, stretti fa corpi caldi e maleodoranti, troppo felici per lamentarsi di qualsiasi cosa. Scossoni, curve prese a tutta velocità, qualcuno vomita e sale il fetore, non c’è abbastanza spazio per bere o per girarsi, non c’è spazio per fare niente. Arrivati a destinazione, i profughi esplodono letteralmente dal retro del camioncino, Ismael ha il tempo di guardarsi intorno, palazzi di periferia, strade, Il Cairo, poi vede tutto bianco, il mondo fa una piroetta e crolla a terra svenuto.


Il Cairo dicono sia una dei posti più casinari e pericolosi del nordafrica. C’è un’umanità poverissima che boccheggia ai margini e negli interstizi della città, e tra di loro un mucchio di gentaglia che non ha niente da perdere e ammazza per due soldi. Di questo Ismael se ne accorge subito, perciò passa il tempo con il gruppo di palestinesi profughi che è nomade in città, sono fra amici e si guardano le spalle. Si muovono da un quartiere all’altro per evitare la polizia, se venissero beccati viaggio di sola andata in Palestina, e in pessime condizioni. Per dormire, ogni notte una strada diversa, un parco o una stazione dei bus, facendo i turni di guardia per non finire derubati. Niente alberghi per loro, non sono ammessi clandestini, i gestori finirebbero nei guai. Lavarsi, poco; mangiare, disordinato e in fretta. Nelle lunghe notti egiziane Ismael si osservava cambiare. Non era mai uscito dalla sua città, e ora improvvisamente doveva dare fondo a tutta la sua tenacia per imparare la vita da fuggitivo. Cresceva, conosceva gli uomini, e nella sua condizione non gli sembravano pezzi di pane. In compenso, il rapporto coi suoi amici si stringeva e diventava fratellanza, comunanza data da un destino che li vuole sempre più forti degli altri per ottenere una pari dignità. All’ufficio timbri per il visto del Cairo, la folla è in costante mormorio, tenuta d’occhio da funzionari in divisa. Devono, Ismael e l’amico, ottenere a tutti i costi il segno di avvenuto controllo sul passaporto per lasciare il paese, e volare finalmente verso la Turchia e il Canada. L’ultima sfida, la più importante e la più difficile. Il timbro te lo devi guadagnare come tutto, a scapito degli altri, per non rendere il viaggio inutile. Da una porticina esce nel cortile dove sono ammassati i richiedenti un sergente grasso. Passa tra facce lunghe camminando impettito, centinaia di vite sono appese al suo insindacabile giudizio, al suo umore del giorno e alle simpatie che prova per un viso o un’espressione. Ismael sa che non può permettersi di non essere scelto, ha studiato in pochi istanti quelli che sembrano i criteri nella testa del militare, e sfoggia una faccia seria, non supplichevole, perché se fa pena non verrà scelto, e non rabbiosa, per non contrariarlo, una via di mezzo tra le sembianze di chi la sa lunga e di chi si trova lì in vacanza, ma anche occhi fissi, duri, quasi ipnotici. Quando il sergente è davanti a lui, sente la testa flippargli completamente, preghiere si mescolano ad imprecazioni nei pensieri, ma deve dissimulare tutto. “...mmm...Tu! Favorisci il passaporto...”.E’ quasi una sentenza divina, le mani gli tremano mentre allunga il documento e sente confusamente che ce l’ha fatta, che la Turchia è lì a poche ore di volo, ad attendere lui. All’amico è andata male, nel marasma un ladruncolo gli ha rubato la cartellina coi documenti e ora non ha alcuna possibilità di richiedere nulla, senza il pezzo di carta sei nessuno, e non c’è autorità a cui appellarsi. Piange, come un infante abbandonato, sul margine del marciapiede, e non ci sono parole per confortarlo. Dice a Ismael che deve andare, non può perdere nemmeno un minuto, e non deve preoccuparsi, la prossime volta andrà meglio. Ha ragione. Un anno dopo telefonerà dal Canada, la sua nuova casa, ce l’ha fatta anche lui.



La prima doccia in venti giorni Ismael ha potuto godersela nella sua nuova stanza al campus della Sabanci University, Istanbul, in qualità di studente in scholarship fruitore di una borsa di studio. Ora ha vestiti puliti, un letto suo, persone gentili e disponibili intorno, ottimi professori, e amici. L’università gli ha anche fornito un computer, e attraverso skype sente la sua famiglia ogni volta che può, quando a Gaza c’è la corrente e quando le linee laggiù non sono interrotte. Studia, e con gli ottimi risultati raggiunti è riuscito a rinnovare lo scholarship per altri sei mesi, e poi ancora altri sei. Non può permettersi di prendere voti bassi, visto che la Sabanci è una università privata potrebbero espellerlo. Non può fare cazzate, che dopo due volte che t’hanno mandato alla sezione disciplinare sei espulso. Ma può vivere questa città meravigliosa e vitale, può allargare a dismisura i suoi riferimenti, può trovare una ragazza e amarla. Anche se, mi dice, non è più capace di amare. Alle mie insistenti domande, una notte, si è aperto e mi ha raccontato: “Avevo una ragazza a Gaza, dovevamo sposarci. L’amavo, per la prima volta nella mia vita ero sicuro di qualcosa. Poi Israele ha bombardato la sua casa. E’ morta con la sua famiglia. Dopo che ho visto i pezzi del suo corpo sparsi per terra, dopo il dolore che ho provato, non permetterò mai più a me stesso d’amare.”

Vivi Ismael, e la guerra combattila con il tuo sogno.


3 commenti:

  1. La propria storia personale sono le storie che condividiamo...
    Senza giudicare,ma facendole proprie nel proprio cuore.
    Come questa storia.

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  2. Bellissimo. Una storia che ci proietta al di là del confine, il punto di vista dell'altro. Verità assolute non esistono, punti di vista assoluti non esistono, la comprensione e la sensibilità di sfaccettare la stessa storia sono la vera sfida.
    Vai così.

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  3. Davvero bello questo pezzo, Sal. Bello e soprattutto forte, perché non si riesce a rimanere sereni, accocolati nel nostro caldo benessere, dopo aver incontrato storie come questa.
    E bisogna che le si racconti in giro, e bisogna che la gente conosca e finalmente si svegli. Perché Ismael non deve essere solo nella sua lotta, e nei suoi sogni.
    Un abbraccio forte.
    Roberta

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