lunedì 19 ottobre 2009

Uscire dalla città



A Bilèk non ci vai per caso. E’ così solitario e spoglio questo villaggio, in mezzo al deserto di sassi ocra e neri, tra i radi alberi di noci e di frutta, che ti ci vuole un buon motivo per spingerti laggiù. Sta a circa un’ora da Gaziantep, adagiato sulle pietre, sormontato da un piccolo colle. Ci sono delle fattorie intorno, fiumiciattoli e qualche campo. Aquile maestose planano sul paese e nei dintorni, puntando le carcasse. Poco prima di vedere apparire le sparse case grigie, frotte di capre costeggiano la via, rallentano il passo. E soffocato di caldo vedi le montagne lontane in controluce, nella loro abbacinante durezza, davanti ad una mare di sabbia aspra, acuminata e secca come la gola di un morto. Solo qualche uomo sperduto e fermo, che guarda, ti saluta in silenzio; altri, contadini, trottano in motorette rosse. Che ci fai a Bilèk? Non è un piccolo borgo attraente, non un paesino d’arte, e non c’è nessun panorama o evento culturale ad attenderti. Case, di cemento grezzo coi mattoni in vista, moschee chiuse da decenni. Asini attoniti come statue impegnati nel costante ruminare di rachitiche sterpaglie. E strade che non sono strade, ma semplici mulattiere piene di buche. Scesi in paese però, che accoglienza. "Hoş geldiniz" è la parola che risuona dopo il cigolare dei cancelli che si scihudono, Benvenuti. L'atmosfera è di festa. "Si pensa a noi", e la timidezza delle ragazze velate del paese può per la prima volta temprarsi sulla curiosità che provano per l'ospite, perdipiù straniero.





Ci sono andato con la mia classe di sociologia per motivi di ricerca, per osservare i metodi tradizionali di preparazione dei dolci locali. E per conoscere e parlare con gli abitanti, per domandarci insieme come va la loro vita. Scoperte interessanti si fanno in luoghi isolati, come se l’assenza di un flusso costante di novità possa conservare blocchi di memoria che resistono all’aridità. Molte azioni si ripetono uguali a Bilèk da tempo immemorabile. Quasi in tutti i cortili, quelli che se lo possono permettere, le famiglie lavorano nella produzione di Cevizli Sucuk e Pestil. I Cevizli Sucuk sono gemme di noci o pistacchi, intinti nell’uzum e lasciati a seccare al sole impetuoso dell’est, mentre i Pestil sono lenzuoli d'uzum, necessari per la preparazione dei famosi baklava di Gaziantep. L’uzum, questa melassa dolce e calda che bolle senza sosta su un fuoco crepitante, è semplice uva pressata e mescolata ad altri ingredienti che ne aumentano la consistenza. Dolcissima in bocca, senza aggiunta di zucchero, si gusta anche a cucchiaiate in scodella, e dicono sia salutare ed energetica, una panacea naturale. Ce la offrono sorridendo, e posso vedere il biancore luminoso dei denti, anche se producono dolci e ne consumano in quantità, che mi fa capire la bontà degli ingredienti, l’assenza di dolcificanti, e la vita sana che conducono qui, contro il deserto. E’ un lavoro lungo e paziente fare i Cevizli. Ogni noce o pistacchio viene bucato nel centro con un punteruolo e fatto passare attraverso un filo di spago doppio. Questa collana spezzata, di venti o trenta frutti, si aggiunge poi ad altre e vengono legate ad un ramo giovane. Sono così pronte per essere intinte ad una ad una e svariate volte, nell’uzum che ribolle. Il gesto è deciso, sprofondano nella pasta molle come panni nell’acqua, ne escono dorate e grondanti e vengono messe ad asciugare su lunghe aste provviste di uncini. Una volta indurite sono Cevizli, hanno un colore di ambra millenaria e la morbidezza di caramelle gommose, con un cuore duro e squisito. Un chilo costa 20 lire, circa dieci euro, e ti basta per un mese. Ecco un buon motivo per andare a Bilèk, a farsi una scorpacciata di Cevizli, o magari a prenderne grandi quantità per poi rivenderle al dettaglio in centro a Gaziantep, e guadagnarsi la pagnotta. Ho incontrato un signore anziano che fa questo da vent’anni, e ci campa.









Le donne di Bilèk continueranno a bucare frutta secca e ad attendere ospiti e avventori. Sono loro l’anima di questo lavoro, ne compiono ogni passaggio lavorando in silenzio o intonando canti sconosciuti. Non importa l’età, giovani e vecchissime animano ogni cortile, nei loro pantaloni a buffo, con veli colorati messi alla buona e i capelli tinti di henna. Sono curde, o sembrano tali, alcuni nemmeno lo sanno, in questa contrada non ha molta importanza, purché si lavori. C’è un’anziana signora che mi invita più vicino al grande calderone. Vuole mostrami la nascita dei dolci da vicino, e mi tiene stretta una spalla. E’ orgogliosa, o semplicemente è tutto ciò che ha. Le rughe sul volto raccontano stenti, che però non hanno affossato il dolce sorriso che mi dona serena. I nostri occhi si parlano. E stretta nel suo vestito sdrucito, con strappi e macchie, con il seno enorme e cadente, e i piedi nudi, mi sembra la custode dei dolci segreti per dare ai Cevizli il sapore che hanno. Sua nipote gioca con una capra legata ad un cerchio di ferro, mentre quella che sembra una figlia attende al lavoro senza darmi confidenza, così bella nel suo silenzio. Le donne qui non hanno l’abitudine di parlare agli sconosciuti, soprattutto agli uomini, solo le anziane che ormai hanno i riti di crescita tutti alle spalle non si preoccupano più della discrezione dovuta, e la comunità glielo permette. Ma dove sono i mariti, i padri i figli? Gli uomini non prendono parte al lavoro. Poco più in là nella strada, vicino ad un forno che cucina bòrek, c’è una stamberga di bar con quattro tavoli e un televisore. Lì dentro, fumando sigarette pesanti, ne trovi alcuni, diffidenti, tutti presi dalle carte e dalla tavla, mentre la tv manda video di pop turco a ripetizione. Altri uomini sono nelle campagne vicine, altri sono partiti e abitano in città cercando un lavoro, ma nessuno si dedica alla preparazione dei dolci. Divisione dei ruoli, lento fluire del tempo che cambia i costumi, o gerarchia patriarcale? Non ci è dato saperlo con una visita soltanto, penetrare la vita di Bilèk significa entrare nel suo quotidiano mutare restando Bilèk.






Camminando per le strade siamo seguiti da un folto gruppo di bambini, quasi tutti maschi. Sono incredibilmente eccitati da noi, vogliono mostrarci gli angoli dove per loro giace bellezza, e i loro luoghi preferiti per giocare. Ci portano in una casa diroccata, dove amano nascondersi tra le macerie, in improbabili nascondini. Oppure su alla collina dove hanno trovato una cucciolata di cani, che tirano fuori da un buco nel muro. Sorridono, urlano, sbraitano, litigano. Sono una forza della natura, e mi rendo conto di quanto tutta la loro energia esplode in ogni direzione, cerca qualcosa a cui attaccarsi nell’innocenza del desiderio di divertirsi. La mia mano è tirata e alcuni mi verrebero in braccio in questa baraonda, senonchè arriviamo a entrare in una tomba, dove chi dice giace un vecchio di 110 anni, chi parla di un bambino morto, mi fanno prendere paura tutti di concerto. Mi dicono che il morto è lì. E ci stiamo tutti attorno in una casupola spersa con una minuscola entrata; e fetida. Non hanno granché qui. A parte gli alberi su cui salire, rischiando rotte d’ossa, e le galline da inseguire, neppure un posto per tirare quattro calci al pallone, un luogo che abbia le parvenze di un parco per bambini. C’è la scuola, l’edificio più moderno del villaggio, con la statua di Ataturk dorata e scintillante, ma le porte sfondate e nessuno a controllare. Ci siamo entrati, e tutti i ragazzini l’amano, in modo un po' violento. Mentre saltavano su bachi e sedie, ho avuto la malaugurata idea di proporgli una lezione lampo di inglese, giusto per insegnargli le basi per conoscere qualcuno. Tutti felicissimi della mia iniziativa, mi sono saltati addosso ripetendo ciò che dicevo senza alcuna coerenza, come un gioco, che si è presto trasformato in un prendere il “maestro” per la gola, nell’estasi di salti sempre più arditi e urla lancinanti. M’ha salvato un amico, Ercan, che m’ha chiarito quanto questi bambini possano perdere il controllo, ignorati e scarsamente educati dai familiari, spesso assenti. Non tanto diversi dai ragazzini napoletani, ansiosi di vita intensa e di scoperte, a vivere una realtà dura, ripetitiva, con sogni che o sono troppo grandi per queste mulattiere o arrivano a un tiro di sasso da qui. La prossima volta gli porto un pallone.






Il professore, l’unico che parla inglese nel raggio di chilometri, si avvicina curioso delle mie reazioni. Ancora cerco di riprendermi dall’ ”attacco” dei ragazzini, e il sole potente m’ha dato un po' alla testa. Sono confuso da ciò che mi circonda, la mia ragione cerca connessioni con altri luoghi e altri tempi che ho visitato, e trova riparo nella campagna della mia infanzia il cui spirito assomiglia alla quotidianità di questo villaggio, dai racconti e dalle visioni del passato. Sembrano solo più abbandonati e più lontani, una scaglia sfuggita alle grandi ristrutturazioni programmate da Ankara, che non ha neppure un sindaco a cui rivolgersi per far aggiustare le strade. Un luogo anche sinistro in certi momenti, che ti guarda passare, da immorale viaggiatore non responsabile del loro destino quale sei, come l’ennesimo anello di una lunga catena di eventi che non li tocca, non li cambia. C’è però qualcosa che non quadra. Vengo a sapere che Bilèk è un villaggio antico, ed aveva la sua solennità e fama. Me nessuno lo conosce ora, come fosse appena nato. Le case la raccontano lunga, fatte di mattoni recenti, alcune ancora in costruzione, emergenti dal fango come aborti edilizi, senza alcuna bellezza o segno che le caratterizzi. Effettivamente, mi dice il professore, non hanno più di cinquant’anni queste case, e sono state tirate su per la loro più pratica funzione di racchiudere uomini, e non come risultato di espressione culturale. Bilèk era un antico villaggio curdo, ma case e uomini sono stati spazzati via negli anni venti, dalle cariche e dall’esplosivo dell’esercito turco, nell’opera di “pulizia” del paese, compiuta dai padri della patria nei caotici anni delle guerre di indipendenza e di consolidamento. La gente era stata evacuata, le case distrutte. Non c’era più niente e nessuno, solo macerie, colme di memoria. I nuovi abitanti, giunti dalle campagne più disperse, hanno iniziato a ricostruire dei luoghi dove abitare sopra i resti delle antiche residenze. C’era bellezza, ed è stata seppellita sotto il cemento armato. La memoria si è sostituita ad altra memoria, viaggiando su piedi e carri, fino a solidificarsi, in attesa di un giorno dopo l’altro. Ora Bilèk sa solo che fuori dal villaggio c’è il vasto mondo, e alcuni lo inseguono. E’ viva però, e si sfornano bambini come Cevizli, poco curandosi di dove andranno a finire entrambi.


Ripartiamo nella medesima folla di ragazzini euforici che c’ha accolto così calorosamente. Battono le mani sul finestrino come per dire “non dimenticare di tornare”, e inseguono l’autobus ingoiando polvere e lanciando le poche parole inglesi che hanno imparato dallo straniero. Ercan mi guarda, Bilèk è strano anche per lui, e mi rendo conto che solo vivendoci potrei avvicinarmi a capire che cosa vuol dire nascerci.

1 commento:

  1. Bello il pezzo, belle le idee trasmesse. Uno sguardo nuovo su qualcosa di molto vecchio.

    La frase finale dà senso a tutto il pezzo, fende luoghi comuni altrimenti pericolosi.

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