L’Esmer sta al terzo piano di un palazzo sul boulevard che taglia in due il centro di Gaziantep, vicino al quartiere armeno senza armeni. Di loro sono rimaste solo le case e le chiese, la gente emigrò o fu deportata molti anni fa, quando le cose per i cristiani si mettevano male. Sotto l’insegna dipinta in verde e rosso campeggia la scritta “Sanatçı Kahve”, caffè degli artisti. Quando si entra, bisogna salutare tutti i presenti, compresi i proprietari, se non con la mano almeno con un cenno del capo. Qui si usa così. Una decina di tavolinetti bassi sono distribuiti nell’unica stanza del locale con intorno delle sedie piccole; la stoffa delle imbottiture, un tempo sgargiante, è consumata e sfilacciata agli angoli. Dal muro ruvido pendono dipinti ad olio che conferiscono all’ambiente calore e bellezza, pur nella sua povertà. Le finestre ai lati affacciano sulla strada, e da lì il pomeriggio si vedono i vecchi seduti sulle panchine a meditare e a rigirarsi i rosari tra le dita, avvolti nei loro scialli marroni e viola. Un grande manifesto ingiallito del film “Umut” (“Speranza”) è appeso alla parete vicino il bancone. Il viso scavato di Yılmaz Güney, attore e regista, risalta con gli occhi piccoli e penetranti, circondato dalle donne e dai bambini vestiti miseramente che interpretano la sua famiglia nel film, ossuti quanto lui. All’Esmer se non conosci Güney te lo insegnano subito. Con orgoglio il gestore Zafer, un uomo alto e filiforme, ti dirà che è il più grande regista del cinema turco: nei suoi film ha raccontato la cultura dell’Anatolia, la vita dei kurdi, era una testa calda e ha mostrato la verità, per questo l’hanno messo in prigione. Ad un angolo, seduto davanti al çay che si raffredda, Sherif suona assorto frammenti di frasi col saz, con lo sguardo perso e i ricci che gli cadono sulla fronte, finché qualcuno non gli chiederà di cantare. Ferhat non riesce a fermare il tremolio alla gamba. Si passa la mano nella barbetta rada nervosamente, tirando lunghe boccate alla sigaretta. Guarda la porta. Poi la finestra. Si ferma sulla mia faccia e sorride. I tic non gli danno pace, è attraversato da un’inquietudine costante, come se avesse delle formiche che gli camminano addosso. È capace di passare da un’allegria molesta a un umore nero in pochi istanti, per poi spiazzarti con una domanda a bruciapelo: « Qual è la tua posizione politica?... Credi in dio?... Sei mai stato su un monte di notte da solo? ». Si blocca e ascolta la tua risposta, gli interessa davvero. Dietro gli occhialini, i suoi occhi sono mobili e amichevoli, eppure c’è qualcosa di imperscrutabile che si agita nel fondo. Un bisogno, un dolore, un passato pesante come una pietra. « Io sono comunista e ateo », dice risoluto, « e sono per la fratellanza tra i popoli, non li sopporto i nazionalisti, di qualunque nazione… no, neppure i kurdi. Io sono kurdo ma questo non vuol dire che noi ci dobbiamo comportare come i turchi… non sono la soluzione quelli sulle montagne, si il PKK, certo che li sostengo, non abbiamo nient’altro, però se fino ad ora hanno tenuto acceso l’orgoglio e la speranza adesso ci dobbiamo concentrare sulla cultura e sulle condizioni economiche, preservare, trasmettere, migliorare con nuovi strumenti, anche legali, come faceva Musa Anter… Ci dobbiamo riprendere quello che ci hanno tolto, tenere viva la nostra cultura. Il Newroz per esempio, il nostro capodanno, il 21 marzo. È la ricorrenza più importante del calendario kurdo, e anche dell’Iran. Solo che lì ci sono sedici giorni di festa nazionale, qui non esiste. Al Newroz ci si riunisce, si danza, si fa festa. Ma le istituzioni turche militarizzando tutte le città dell’est l’hanno trasformato in un giorno di scontri e proteste. Cambiano il significato alle cose, capisci? Un altro problema è l’educazione: dalla scuole infantile all’università, fondamentali per migliorarsi, cosa acquisisce un kurdo? Più impara, più dimentica la sua lingua, perché l’educazione è solo in turco. Diventa avvocato, medico, architetto e non sa niente della sua storia. Anche io ho difficoltà a scrivere in kurdo, ho imparato a farlo in turco. Abbiamo bisogno di più autonomia, del riconoscimento della nostra diversità, solo così smetteremo di odiare la Turchia per le menzogne che insegnano ai nostri bambini. Altrimenti la guerra continuerà e non arriveremo a nulla, tutti perderanno… il sangue non si può lavare con altro sangue. La convivenza è possibile ma prima deve finire il fascismo in Turchia ». Ferhat si è stabilito a Gaziantep solo da qualche anno. È nato trentasette anni fa in una famiglia di pastori sui monti aguzzi della provincia di Hakkari, la più povera del paese, nel distretto di Yüksekova, l’insediamento più malfamato e più remoto della provincia. L’Iraq è cinquanta chilometri a sud, L’Iran più vicino, al di là di alte montagne, e Yüksekova era uno snodo importante per le carovane dell’antichità. Oggi la mafia locale gestisce il traffico di eroina verso l’Europa. Si cresce sotto occupazione nel suo villaggio: è una delle zone in cui periodicamente vengono rinnovate le “misure speciali di sicurezza” e i soldati hanno accampamenti trincerati sugli speroni di roccia. Dove la pressione impedisce lo svolgersi della vita quotidiana, è più probabile che si opti per scelte estreme. Molti amici di Ferhat hanno preso la via delle montagne, alcuni ci sono morti. Lui mi dice che non l’avrebbe fatto ma comunque non gli hanno lasciato il tempo. « A sedici anni sono entrato in prigione. Cosa ho fatto? Niente! Avevo dei libri sul socialismo e stavo con ragazzi più grandi… un giorno che sono venuti a prenderli hanno preso anche me. Undici anni ci ho passato, i migliori anni della vita… sai, è assurdo ma la prigione qualche volta mi manca. Tra i politici eravamo come fratelli, le persone erano più vere. C’era solidarietà. Qui fuori contano solo i soldi, la gente per strada neppure ti guarda, tutti pronti a fregarti alla prima occasione, specialmente a Gaziantep. E io i soldi non ce li ho. Vivo per gli amici, se non avessi loro mi sarei ammazzato da tempo ». L’Esmer inizia a riempirsi, si sta facendo sera e le facce di chi ha finito di lavorare o studiare raccontano la necessità di stare insieme. Ferhat abi, fratello maggiore, non lesina abbracci alla “famiglia” ma poi torna al mio tavolino, ha voglia di aprirsi stasera. « Voglio studiare filosofia all’università. Non so perché… mi piace leggere, Nietzsche soprattutto. Se pure volessi dopo non posso insegnare, agli ex carcerati i concorsi pubblici sono vietati. Che cosa dovrebbe fare uno come me? Solo morire te lo dico io... La mia ragazza mi ha lasciato dopo sei anni. S’è stufata di aspettare. Nella mia cultura, se non hai una casa e dei soldi non puoi chiedere di sposare e i lavoretti che trovo non bastano. Per fortuna da Esmer non conta… Ai miei figli, se mai li avrò, il kurdo glielo insegno. È la mia prima lingua! Il turco l’ho imparato dai sette anni… quando andavo a scuola il maestro non lo capivo, allora tornavo a casa e dicevo a mia madre “a scuola non ci vado! perché devo imparare il turco? Non può imparare lui il kurdo?”. Poi la mamma mi ha convinto e oggi conosco due lingue ». La voce di Sherif, dolce e lamentosa, ha iniziato a intonare “Giderim” di Ahmet Kaya. Hanno messo le sedie in cerchio intorno alla stufa e ci uniamo a loro. Qui il passato ritorna a colpi di vento che spazzano via la presunta unicità. Davanti ai miei occhi, ci sono turchi, kurdi, laz, zaza, circassi, alcune tessere del mosaico culturale della Turchia rimescolate in questo bar. L’appartenenza di ognuno è un filo inestricabilmente legato agli altri. Si respirano storie sovrapposte, tenute insieme da cose semplici: il lavoro, l’amore, la musica, le armi. Una vertigine di differenze strette intorno a dei sentimenti. Ferhat sembra capire cosa mi passa nella mente e senza smettere di battere con le mani sulle ginocchia mi dice: « È come essere kurdi, non si possono cancellare i sentimenti! Perché l’hanno chiamata Turchia? Stati Uniti dell’Anatolia li dovevano chiamare! ».
Ritorno a casa da solo, di notte, nella periferia di Antep. Le luci colorate in un giardino dove si ascolta musica e si fumano narghilè sono un’isola nel buio pesto di pochi metri più in là. Un buio che continua, si espande, si allunga verso le piane dell’Anatolia, sulle montagne, rischiarato a volte dai villaggi dimenticati nei fondovalle, battuto dalle follie elettriche delle metropoli, ma che inesorabile dal mar nero al mediterraneo abbraccia famelico la terra di Turchia. Gli sforzi degli uomini resistono alla notte, al sonno che induce, all’oblio che porta. Lo sforzo di un uomo animato da idee grandiose di indipendenza seppe persuadere altri uomini a conquistare quei confini entro i quali la patria si costruisce. Le idee di turchicità, di essenza esclusiva, di identità unica, che sole nella sua visione potevano far convergere appartenenze diverse verso un obiettivo comune, sono pietre nei cimiteri, pietre nei palazzi governativi, pietre nelle prigioni. E le stesse idee sono anche fuochi, energie, motori e turbine, mediazioni tra moderno e antico, appigli nel brancolare recidivo degli uomini nella Storia verso un luogo che possano chiamare “casa”. Nel buio le bandiere non smettono di sventolare, nel buio le lingue cancellate continuano a sussurrare la loro presenza. La luce di qualcuno è l’eterna notte per qualcun altro, perché quest’idea non mi lascia in pace mentre risalgo la collina? Altri confini, altre spartizioni, possono essere solo queste le vie all’autodeterminazione di un popolo? Per poi perseguitare altre differenze e così all’infinito… un’auto si ferma vicina ai miei passi e mi riporta nella fredda notte, sulla strada di una via in salita a Gaziantep. Dei ragazzi sorridenti mi offrono un passaggio, gli leggo la bontà negli occhi. Salto su e sfrecciamo via. Non rimpiango di essere vivo anche se non so chi sono, non so dove sono. Ogni parola nuova che imparo è un nuovo modo di essere, sempre e comunque, un uomo.