sabato 15 maggio 2010

Il paese dove non siamo - III parte

L’Esmer sta al terzo piano di un palazzo sul boulevard che taglia in due il centro di Gaziantep, vicino al quartiere armeno senza armeni. Di loro sono rimaste solo le case e le chiese, la gente emigrò o fu deportata molti anni fa, quando le cose per i cristiani si mettevano male. Sotto l’insegna dipinta in verde e rosso campeggia la scritta “Sanatçı Kahve”, caffè degli artisti. Quando si entra, bisogna salutare tutti i presenti, compresi i proprietari, se non con la mano almeno con un cenno del capo. Qui si usa così. Una decina di tavolinetti bassi sono distribuiti nell’unica stanza del locale con intorno delle sedie piccole; la stoffa delle imbottiture, un tempo sgargiante, è consumata e sfilacciata agli angoli. Dal muro ruvido pendono dipinti ad olio che conferiscono all’ambiente calore e bellezza, pur nella sua povertà. Le finestre ai lati affacciano sulla strada, e da lì il pomeriggio si vedono i vecchi seduti sulle panchine a meditare e a rigirarsi i rosari tra le dita, avvolti nei loro scialli marroni e viola. Un grande manifesto ingiallito del film “Umut” (“Speranza”) è appeso alla parete vicino il bancone. Il viso scavato di Yılmaz Güney, attore e regista, risalta con gli occhi piccoli e penetranti, circondato dalle donne e dai bambini vestiti miseramente che interpretano la sua famiglia nel film, ossuti quanto lui. All’Esmer se non conosci Güney te lo insegnano subito. Con orgoglio il gestore Zafer, un uomo alto e filiforme, ti dirà che è il più grande regista del cinema turco: nei suoi film ha raccontato la cultura dell’Anatolia, la vita dei kurdi, era una testa calda e ha mostrato la verità, per questo l’hanno messo in prigione. Ad un angolo, seduto davanti al çay che si raffredda, Sherif suona assorto frammenti di frasi col saz, con lo sguardo perso e i ricci che gli cadono sulla fronte, finché qualcuno non gli chiederà di cantare. Ferhat non riesce a fermare il tremolio alla gamba. Si passa la mano nella barbetta rada nervosamente, tirando lunghe boccate alla sigaretta. Guarda la porta. Poi la finestra. Si ferma sulla mia faccia e sorride. I tic non gli danno pace, è attraversato da un’inquietudine costante, come se avesse delle formiche che gli camminano addosso. È capace di passare da un’allegria molesta a un umore nero in pochi istanti, per poi spiazzarti con una domanda a bruciapelo: « Qual è la tua posizione politica?... Credi in dio?... Sei mai stato su un monte di notte da solo? ». Si blocca e ascolta la tua risposta, gli interessa davvero. Dietro gli occhialini, i suoi occhi sono mobili e amichevoli, eppure c’è qualcosa di imperscrutabile che si agita nel fondo. Un bisogno, un dolore, un passato pesante come una pietra. « Io sono comunista e ateo », dice risoluto, « e sono per la fratellanza tra i popoli, non li sopporto i nazionalisti, di qualunque nazione… no, neppure i kurdi. Io sono kurdo ma questo non vuol dire che noi ci dobbiamo comportare come i turchi… non sono la soluzione quelli sulle montagne, si il PKK, certo che li sostengo, non abbiamo nient’altro, però se fino ad ora hanno tenuto acceso l’orgoglio e la speranza adesso ci dobbiamo concentrare sulla cultura e sulle condizioni economiche, preservare, trasmettere, migliorare con nuovi strumenti, anche legali, come faceva Musa Anter… Ci dobbiamo riprendere quello che ci hanno tolto, tenere viva la nostra cultura. Il Newroz per esempio, il nostro capodanno, il 21 marzo. È la ricorrenza più importante del calendario kurdo, e anche dell’Iran. Solo che lì ci sono sedici giorni di festa nazionale, qui non esiste. Al Newroz ci si riunisce, si danza, si fa festa. Ma le istituzioni turche militarizzando tutte le città dell’est l’hanno trasformato in un giorno di scontri e proteste. Cambiano il significato alle cose, capisci? Un altro problema è l’educazione: dalla scuole infantile all’università, fondamentali per migliorarsi, cosa acquisisce un kurdo? Più impara, più dimentica la sua lingua, perché l’educazione è solo in turco. Diventa avvocato, medico, architetto e non sa niente della sua storia. Anche io ho difficoltà a scrivere in kurdo, ho imparato a farlo in turco. Abbiamo bisogno di più autonomia, del riconoscimento della nostra diversità, solo così smetteremo di odiare la Turchia per le menzogne che insegnano ai nostri bambini. Altrimenti la guerra continuerà e non arriveremo a nulla, tutti perderanno… il sangue non si può lavare con altro sangue. La convivenza è possibile ma prima deve finire il fascismo in Turchia ». Ferhat si è stabilito a Gaziantep solo da qualche anno. È nato trentasette anni fa in una famiglia di pastori sui monti aguzzi della provincia di Hakkari, la più povera del paese, nel distretto di Yüksekova, l’insediamento più malfamato e più remoto della provincia. L’Iraq è cinquanta chilometri a sud, L’Iran più vicino, al di là di alte montagne, e Yüksekova era uno snodo importante per le carovane dell’antichità. Oggi la mafia locale gestisce il traffico di eroina verso l’Europa. Si cresce sotto occupazione nel suo villaggio: è una delle zone in cui periodicamente vengono rinnovate le “misure speciali di sicurezza” e i soldati hanno accampamenti trincerati sugli speroni di roccia. Dove la pressione impedisce lo svolgersi della vita quotidiana, è più probabile che si opti per scelte estreme. Molti amici di Ferhat hanno preso la via delle montagne, alcuni ci sono morti. Lui mi dice che non l’avrebbe fatto ma comunque non gli hanno lasciato il tempo. « A sedici anni sono entrato in prigione. Cosa ho fatto? Niente! Avevo dei libri sul socialismo e stavo con ragazzi più grandi… un giorno che sono venuti a prenderli hanno preso anche me. Undici anni ci ho passato, i migliori anni della vita… sai, è assurdo ma la prigione qualche volta mi manca. Tra i politici eravamo come fratelli, le persone erano più vere. C’era solidarietà. Qui fuori contano solo i soldi, la gente per strada neppure ti guarda, tutti pronti a fregarti alla prima occasione, specialmente a Gaziantep. E io i soldi non ce li ho. Vivo per gli amici, se non avessi loro mi sarei ammazzato da tempo ». L’Esmer inizia a riempirsi, si sta facendo sera e le facce di chi ha finito di lavorare o studiare raccontano la necessità di stare insieme. Ferhat abi, fratello maggiore, non lesina abbracci alla “famiglia” ma poi torna al mio tavolino, ha voglia di aprirsi stasera. « Voglio studiare filosofia all’università. Non so perché… mi piace leggere, Nietzsche soprattutto. Se pure volessi dopo non posso insegnare, agli ex carcerati i concorsi pubblici sono vietati. Che cosa dovrebbe fare uno come me? Solo morire te lo dico io... La mia ragazza mi ha lasciato dopo sei anni. S’è stufata di aspettare. Nella mia cultura, se non hai una casa e dei soldi non puoi chiedere di sposare e i lavoretti che trovo non bastano. Per fortuna da Esmer non conta… Ai miei figli, se mai li avrò, il kurdo glielo insegno. È la mia prima lingua! Il turco l’ho imparato dai sette anni… quando andavo a scuola il maestro non lo capivo, allora tornavo a casa e dicevo a mia madre “a scuola non ci vado! perché devo imparare il turco? Non può imparare lui il kurdo?”. Poi la mamma mi ha convinto e oggi conosco due lingue ». La voce di Sherif, dolce e lamentosa, ha iniziato a intonare “Giderim” di Ahmet Kaya. Hanno messo le sedie in cerchio intorno alla stufa e ci uniamo a loro. Qui il passato ritorna a colpi di vento che spazzano via la presunta unicità. Davanti ai miei occhi, ci sono turchi, kurdi, laz, zaza, circassi, alcune tessere del mosaico culturale della Turchia rimescolate in questo bar. L’appartenenza di ognuno è un filo inestricabilmente legato agli altri. Si respirano storie sovrapposte, tenute insieme da cose semplici: il lavoro, l’amore, la musica, le armi. Una vertigine di differenze strette intorno a dei sentimenti. Ferhat sembra capire cosa mi passa nella mente e senza smettere di battere con le mani sulle ginocchia mi dice: « È come essere kurdi, non si possono cancellare i sentimenti! Perché l’hanno chiamata Turchia? Stati Uniti dell’Anatolia li dovevano chiamare! ».

Ritorno a casa da solo, di notte, nella periferia di Antep. Le luci colorate in un giardino dove si ascolta musica e si fumano narghilè sono un’isola nel buio pesto di pochi metri più in là. Un buio che continua, si espande, si allunga verso le piane dell’Anatolia, sulle montagne, rischiarato a volte dai villaggi dimenticati nei fondovalle, battuto dalle follie elettriche delle metropoli, ma che inesorabile dal mar nero al mediterraneo abbraccia famelico la terra di Turchia. Gli sforzi degli uomini resistono alla notte, al sonno che induce, all’oblio che porta. Lo sforzo di un uomo animato da idee grandiose di indipendenza seppe persuadere altri uomini a conquistare quei confini entro i quali la patria si costruisce. Le idee di turchicità, di essenza esclusiva, di identità unica, che sole nella sua visione potevano far convergere appartenenze diverse verso un obiettivo comune, sono pietre nei cimiteri, pietre nei palazzi governativi, pietre nelle prigioni. E le stesse idee sono anche fuochi, energie, motori e turbine, mediazioni tra moderno e antico, appigli nel brancolare recidivo degli uomini nella Storia verso un luogo che possano chiamare “casa”. Nel buio le bandiere non smettono di sventolare, nel buio le lingue cancellate continuano a sussurrare la loro presenza. La luce di qualcuno è l’eterna notte per qualcun altro, perché quest’idea non mi lascia in pace mentre risalgo la collina? Altri confini, altre spartizioni, possono essere solo queste le vie all’autodeterminazione di un popolo? Per poi perseguitare altre differenze e così all’infinito… un’auto si ferma vicina ai miei passi e mi riporta nella fredda notte, sulla strada di una via in salita a Gaziantep. Dei ragazzi sorridenti mi offrono un passaggio, gli leggo la bontà negli occhi. Salto su e sfrecciamo via. Non rimpiango di essere vivo anche se non so chi sono, non so dove sono. Ogni parola nuova che imparo è un nuovo modo di essere, sempre e comunque, un uomo.

martedì 11 maggio 2010

Il paese dove non siamo - II parte

Gaziantep è una città senza inizio e senza fine. Come la sua storia. Antichissimo insediamento umano, passata attraverso molte mani, i destini di popoli diversi sono addossati gli uni agli altri come i morti in una fossa comune. La memoria ha molte lingue, che non si capiscono a vicenda. L’ultimo dei suoi anziani ne ha viste così tante che gli è rimasto solo un dio a cui chiedere conto del senso di tutto ciò. E la velocità del cambiamento non fa che aumentare. Gaziantep oggi, uno dei centri produttivi e commerciali più importanti della Turchia. Sul suo territorio sorgono quattro agglomerati industriali di piccole e medie imprese che ne fanno l’economia più dinamica e in espansione dell’est. I settori tessile e alimentare guidano la produzione, e sono fonte di occupazione in misura di poco inferiore alle attività di agricoltura e pastorizia, radicate nel territorio e ottimizzate grazie a macchinari e ingegneri. Le famose “fabbriche”, promessa di lavoro e dignità per gli eserciti di braccia affamate in tutti i paesi con un’economia emergente, ci sono. Qui e non a Diyarbakir, non a Şirnak, non ad Hakkari, zone a maggioranza kurda afflitte dai combattimenti e da un pregiudizio latente che porta alla conseguente sfiducia degli investitori. Gaziantep invece gode di buona fama, non solo per i pistacchi e il cibo ma anche per essere fedele alle direttive kemaliste, almeno superficialmente. L’ultimo attentato, trenta morti e una stazione di polizia distrutta, risale a più di dieci anni fa. Attualmente, viene spesso citata come il simbolo della crescita economica turca. La città è anche coinvolta in uno dei più grandi piani regionali di investimento al mondo, il GAP (Guneydoğu Anadolu Projesi), un vasto progetto in fase di realizzazione che prevede la costruzione di ventidue dighe sul Tigri e l’Eufrate, nell’Anatolia sudorientale, per la produzione di energia elettrica e per favorire l’irrigazione di aree desertiche. Altre categorie di intervento del piano consistono in investimenti per la valorizzazione culturale di questi territori in chiave turistica. Scopo del governo, oltre a quello di attirare capitali stranieri, è risollevare il livello di vita nelle aree dell’est del paese, storicamente considerate anello debole della società e dell’economia. Sarà garantita occupazione e inclusione sociale, dicono i politici da Istanbul e da Ankara. Il miraggio di questa inclusione continua ad attirare a Gaziantep masse di immigrati dai villaggi e dalle campagne. La popolazione è aumentata vertiginosamente in poco più di cinquant’anni: dai circa trecentomila abitanti della metà del secolo scorso, si è arrivati agli oltre milione e mezzo attuali, secondo cifre ufficiali, in realtà molti di più. Non è solo il fascino della metropoli in crescita, con le sue case all’europea, i pub dove bere birra e i centri commerciali a cinque piani, a fungere da magnete. Con l’organizzazione industriale del lavoro agricolo l’economia dei villaggi e degli insediamenti remoti è stata alterata, causando un progressivo impoverimento. L’ondata della modernizzazione ha sconvolto la vita di contadini e pastori, diventati stranieri a casa propria, fossili viventi, nonostante siano ancora la maggioranza. Un ulteriore processo che va avanti dalla fondazione della Repubblica è lo sfollamento degli abitanti di interi villaggi dell’est da parte dell’esercito. Nella prima metà del novecento, le operazioni furono la risposta alle continue rivolte al potere repubblicano, e vennero attuate per ridistribuire i kurdi in tutta la Turchia così da fiaccarne l’unità. I trasferimenti di massa interessarono anche l’altra parte del paese: dall’ovest il governo centrale inviò in tutti gli uffici e le scuole dell’est funzionari con le loro famiglie che parlavano solo il turco, per insegnare a rivolgersi allo Stato con la dovuta lingua. Tra gli anni ottanta e novanta, invece, migliaia di villaggi kurdi sono stati rasi al suolo al fine di sottrarre il sostegno popolare, spontaneo o coatto, ai gruppi guerriglieri del PKK (partito dei lavoratori del Kurdistan), formazione politica paramilitare che rivendica diritti e autonomia per i kurdi, e che da trent’anni ingaggia con le istituzioni turche una guerra interna al paese. Alle imboscate e alle mine dei guerriglieri, l’esercito risponde con rappresaglie e bombardamenti, nel tentativo di stanare il PKK dalle montagne al confine con l’Iraq. Ad oggi, si contano più di quarantamila morti tra scontri e attentati. La guerra, la povertà e le deportazioni hanno fatto crescere a dismisura le principali città turche, trasformandole in mostri proteiformi di infinite periferie costruite da selvaggi palazzinari. Istanbul, con una popolazione che supera i quindici milioni di abitanti, di cui almeno due milioni sono kurdi, è il simbolo di questo processo incontrollato. Anche Gaziantep, nelle sue estreme propaggini, si espande in maniera disordinata: palazzi popolari sono sparsi come un gregge nel paesaggio lunare di detriti e pascoli. Lo spazio per ora c’è, e viene macinato senza tregua. In altre zone della città, arrampicati sulle colline, i più vasti ghetti kurdi, fatti di miseri cubicoli o semplici baracche, sono il contraltare alle conquiste economiche di una classe media in lenta crescita, che simboleggia l’aspirazione massima di status sociale per la maggioranza dei diseredati.



« Ricordati, nell’est troverai solo tre cose: polvere, sporcizia e ipocrisia » mi dice il professor Nuri seduto alla scrivania del suo studio. Di un’età indecifrabile, non anziano e non più giovane, media statura, fisico asciutto, i suoi capelli castani virano al grigio fumo con delle macchie bianche come latte, ha labbra sottili che talvolta sorridono ma come per convenzione, senza forza, senza allegria. Insegna sociologia all’università pubblica di Gaziantep da una decina d’anni, è kurdo originario di Kilis, un villaggio sul confine siriano circondato da campi minati. Mi invita spesso a bere il caffè che si fa su un fornelletto, una sua passione. Non il caffè turco, ci tiene a precisare, ma quello lungo e acquoso di una macchina americana. Alle pareti, riconosco il volto familiare di Gramsci in una foto in bianco e nero. Ci sono anche Adorno, Balzac, Rousseau e Yashar Kemal. La foto di Atatürk, onnipresente in tutti gli uffici pubblici, qui manca, e questa assenza parla da sola. Sul muro opposto, un poster con il disegno di una donna che balla il flamenco in una sinfonia di colori. Nuri mi parla spesso di quella volta che è stato in Spagna per tenere una conferenza sui villaggi rurali in medio oriente, con una punta d’orgoglio. Gaziantep, periferia di un paese che considera provinciale, gli sta stretta. A partire però non ci pensa, qui ha famiglia, due figli che crescono e i suoi studi, i compiti che si è dato. Dietro quegli occhi grigi screziati di verde ci sono amare conclusioni e costatazioni fredde sullo stato delle cose, maturate a furia di consumare scarpe in giro tra l’asfalto delle città e gli sterrati dei villaggi. Unisce le dita davanti al volto e mi osserva di sottecchi, immerso nel calcolo silenzioso di chi è abituato a giudicare chi ha di fronte, prima di parlare. Con me può aprirsi. « Non te lo diranno all’università, ma sappi che la ruota della civiltà gira col sangue. Il perché è semplice: un popolo, una cultura, ha bisogno di uno Stato per sopravvivere. Se manca lo Stato una cultura diversa, minoritaria, è considerata deviante, ed è destinata a scomparire. Creare uno Stato non vuol dire altro che uccidere o piegare chi vi si oppone. Annullarli, come fanno qui da cento anni con i kurdi… i kurdi… le idee capaci di portare a uno Stato non nascono nel mondo rurale, lì la vita si ripete identica a sé stessa, fuori dalla storia. E noi è da lì che veniamo, dalle campagne, la coscienza di popolo è arrivata solo quando hanno deciso la nostra rimozione. Nell’ottocento le tribù kurde si facevano la guerra tra loro per un pezzo di terra… Probabilmente vivere isolati ha permesso di conservare la lingua e i costumi, la chiusura mentale in fondo è anche un metodo di sopravvivenza, ma oggi è la nostra condanna ». Percepisco la rabbia di Nuri aleggiare nella stanza. Una rabbia lucida che non risparmia niente alle due parti, come un orfano cresciuto che accusa genitori e tutori del mondo che gli hanno lasciato e che non ha fatto in tempo a cambiare. « Sai cos’è l’identità turca? il volto del potere. E il potere non è il mezzo, ma il fine. L’identità deve essere fabbricata ed esaltata per assicurarsi l’obbedienza, la gente deve amare il fatto di essere turca e nient’altro… Un meccanismo messo in moto dal fondatore di questo Stato. Ora, il potere si afferma sull’uomo in due modi: con il trionfalismo e l’umiliazione. Per capire il trionfalismo prendi la memoria nazionale, che di storico non ha niente. Un campionario di eventi fatto di pochi ricordi e molto oblio, alcune cose ripetute all’infinito e altre completamente rimosse… Ammazzavano la metà di un villaggio e gli cambiavano il nome per farlo dimenticare, come hanno fatto a Dersim che oggi si chiama Tunceli… Mentre invece le battaglie di liberazione, la morte dei martiri, la bandiera, la vita di Atatürk sono la religione che tutti devono professare. Ce la insegnano fin dall’infanzia, i bambini ripetono a scuola “ne mutlu turkum diyene” (felice colui che può dirsi turco, la più famosa sentenza di Atatürk), lo leggono sulle montagne e sulle strade, e alla fine finiscono per crederci! ». Il caffè nella tazza è finito, Nuri si affretta a riempirla di nuovo. Va a dare uno sguardo nel corridoio, poi chiude la porta a chiave. I nostri occhi si incontrano, complici, e torna a sedersi. Non vuole essere disturbato o non vuole che altri sentano. « L’umiliazione è più pratica e più sottile. Hanno reso il sentirsi kurdi un handicap sociale. Kurdo equivale a primitivo, sottosviluppato. Nessuno ti prende a lavorare se parli solo kurdo, e se vuoi studiare, i libri che trovi nella nostra lingua si contano su una mano. Sono le stesse famiglie kurde che vogliono far dimenticare ai loro figli da dove vengono, e la cosa terribile è che lo fanno per il loro bene. Se sei fiero di essere kurdo, sei un nemico della patria, perché sicuramente stai cospirando per dividerla, sei dalla parte dei terroristi. La propaganda governativa ha fatto crescere più di una generazione nell’odio, i giovani turchi di oggi collegano automaticamente la lingua kurda alle bombe e ai soldati uccisi, provano fastidio se la sentono per strada. Cosa resta da fare a un kurdo che voglia integrarsi? Lasciarsi il passato alle spalle e fare propri i simboli della Repubblica. Si chiama assimilazione e mentre ci sei dentro neppure te ne accorgi, lo fai per sopravvivere… Sono stati abili, separando i kurdi dal passato li hanno divisi nel presente ». Dico a Nuri che l’attuale governo dell’AKP, il partito filo islamico, sembra intenzionato ad aprirsi alle rivendicazioni dei kurdi di maggiori diritti culturali. Il “patto di fratellanza nazionale” nei confronti delle minoranze e il riconoscimento dell’esistenza di una “questione kurda” sono dei passi in questa direzione. Anche l’apertura del primo canale televisivo kurdo lo scorso anno e l’abrogazione delle leggi contro la pubblicazioni di giornali e musica in kurdo lasciano ben sperare. « Non ho molto da sperare. La tensione si è allentata, è vero, ma le condizioni della nostra esclusione, del lento sparire a cui siamo destinati, non sono cambiate. Questo paese, dalla sua nascita, è sotto il controllo dei militari, che non cederanno il potere facilmente. C’è la Repubblica, ma fino al 1950 c’è stato il partito unico. Dopo, anche quel poco di dialettica democratica è stata per tre volte interrotta da colpi di stato, e nel 1980 l’esercito ha riscritto la costituzione. Esistono ancora leggi come l’articolo 301 che punisce l’oltraggio alla patria e all’identità turca, in pratica l’autocritica è bandita… Anche la legge costituzionale contro chi fomenta il separatismo è un pilastro di quest’ordine. Il partito kurdo del DTP è stato chiuso per presunti contatti con il PKK, buon lavoro! Ora sulla piazza hanno lasciato solo gli estremisti... Lo stesso clima di sospetto e timore circonda chi fa informazione o semplicemente manifesta. I giornalisti scomodi li sbattono dentro con un pretesto. Non si fanno problemi neppure coi ragazzini, sai quanti quindicenni affollano le carceri? E questo sarebbe un paese che aspira ad entrare in Europa? L’AKP sta facendo i suoi interessi, vuole allargare il più possibile la sua base elettorale. In fondo rappresenta una borghesia nevrotica che il pomeriggio va in moschea a fare il namaz e la sera guarda la tv bevendo birra… L’AKP sta tirando su un nuovo centro di potere collocando i suoi uomini nei luoghi che contano e screditando i nemici. Puzzano di patriarcato, difendono un’ideologia islamica che attira consensi ma gli interessa solo il denaro… c’è troppa ipocrisia. Troppa ». Nuri guarda fuori alle nuvole sparse. Il pessimismo di quest’uomo è forse realismo dato dall’aver integrato con il sangue e il dolore l’arte di giudicare. È stato tenente dell’esercito per sette anni prima di diventare professore, inviato nell’est a combattere i “terroristi”. Ne parla mal volentieri, e solo una volta sono riuscito a cavargli un frammento di ricordo: « … Sulle montagne ti senti sperduto, quegli spazi enormi, la neve, ti attacchi agli ordini e ai compagni. Io ero giovane, capivo confusamente che stavo tradendo i kurdi, ma avevo bisogno di dimostrare di essere turco. Ho combattuto e ho visto… le torture la sopraffazione, ho visto la verità. Il nostro nemico non era da meno. In guerra la prima cosa a morire sono gli ideali… Abbiamo fatto cose orribili laggiù… alla fine ho disprezzato i miei soldati, e anche me stesso. Finché campo non me lo perdonerò ». Non so se è stato il caffè o le sue parole a farmi venire una tachicardia martellante. Mi sento soffocare, le pareti intorno si restringono. Devo avere la faccia bianca, perché Nuri mi da una pacca sulle spalle e dice di uscire. Fumiamo una sigaretta all’aperto, con gli studenti che affollano i vialetti dell’università. Restiamo lì per un po’, senza più parlare, solo guardandoci intorno.

giovedì 6 maggio 2010

Il paese dove non siamo - I parte


Strade dell’est, immensi orizzonti e confini militarizzati. Vecchi addormentati su carrettini che incedono lentamente, sognano in una lingua proibita. Lassù, tra le nuvole e i falchi, le colonne di Pêşmerge, i guerrieri “in piedi davanti alla morte”, si fanno strada tra gli sterpi di montagna cantando in marcia, pensando alla casa nel villaggio lontano, alla carne di vitello che mangeranno la sera, alle armi nascoste in una caverna sotterranea. Le polizie di frontiera messe a guardia della spartizione del Kurdistan non sanno che ha più di mille anni, eseguono solo gli ordini fumando astiosamente sigarette di contrabbando, pregando che non li attacchino, almeno non mentre loro sono lì. Perché i kurdi non li pieghi: puoi bastonarli all’infinito, rialzeranno sempre la testa. C’è chi combatte, chi lavora per vie legali a qualcosa che assomigli all’autonomia, chi vive semplicemente, chi dimentica, mentre il tempo li allontana e li cambia, sparsi come sono in quattro stati e in giro per il mondo. Destinati al bilinguismo i kurdi, la loro di lingua e quella del paese che li ha inglobati, stretti nella morsa di cittadinanza e appartenenza. L’Iran i sospetti di simpatie separatiste li appende a un cappio, in Siria ai kurdi non è concessa nemmeno la carta d’identità, in Turchia vogliono sradicarglielo dalla testa. Solo nell’Iraq del nord puoi dire Kurdistan ed essere ricevuto con un sorriso, un abbraccio. Nel governo federale dell’Iraq dal 2005 esiste la regione autonoma del Kurdistan, con il suo parlamento, le sue scuole, il suo esercito. Da quando l’eroe leggendario Mustafa Barzani si mise a capo delle rivolte indipendentiste per essere riconosciuti come cultura e come entità politica, fiumi di sangue hanno continuato a scorrere. Ma oggi, da Erbil a Suleymaniye, la lingua ufficiale è il kurdo.

Una volta sono rimasto per una notte intera a sedere in casa di un amico a Diyarbakir ascoltando un anziano che intonava il dengbêj, racconto cantato che per secoli è stato la forma di trasmissione delle storie dei kurdi fra le generazioni. Dopo essere rimasti assorbiti nei vocalismi suadenti e aspri per ore, gli anziani e i ragazzi intorno erano sfiniti, con il viso sognante. Le donne portarono del cibo in grandi piatti rotondi di ferro, e mentre sorbivamo il tè chiesi al mio amico cosa significava quel racconto, di cosa parlava. Con un’espressione amara e ironica insieme mi disse che non lo sapeva, capiva solo poche parole di kurdo, non lo parlava mai nella sua vita quotidiana. Il vecchio che aveva cantato era suo nonno.



Nel suo rapporto al comando sull’assedio di Antep, il colonnello di brigata francese Marcel Abadie annotava nel 1921: « La popolazione di Antep si compone di Turchi (in grande maggioranza), di Kurdi, di Armeni, di Circassi e di alcuni Ebrei… i Kurdi possono essere considerati come una razza autoctona, il loro tipo differisce sensibilmente dal tipo turco e mongolo, abitano soprattutto i propri villaggi in pianura, salvo alcuni gruppi seminomadi che praticano la transumanza… Nell’insieme i Kurdi costituiscono una razza di guerrieri assai brutali, saccheggiatori all’occasione, estremamente robusti e molto bene armati dai bottini delle razzie ai russi. Questi sognano la creazione di un grande Stato kurdo che inglobi tutti i paesi ad ovest, est e sud dell’Eufrate, ma conviene rimarcare che gran parte delle tribù kurde ha fatto causa comune con i Kemalisti nella lotta contro i Francesi ». In seguito alla prima guerra mondiale e alla firma del trattato di Sèvres, ciò che restava dell’impero ottomano era stato diviso dalle potenze europee in rispettive zone di influenza. Nel 1920, gli inglesi occupavano il nord dell’Iraq, i francesi erano acquartierati nel sud-est anatolico e in Siria, agli italiani spettavano le zone di Adana e Konya. Ad ovest, sulle sponde del mediterraneo, Izmir era caduta sotto i colpi dei greci che avanzavano con un’irresistibile serie di vittorie sul campo, decisi ad annettere parte della Tracia e dell’Anatolia. Costantinopoli e il sultano restavano immobili sotto il controllo delle forze di occupazione. L’occidente si stava giocando a colpi di dadi e di obici le membra ancora vive della “Sublime Porta”. Dal suo quartier generale stabilito ad Ankara, il veterano di guerra Mustafa Kemal paşa preparava la lotta agli invasori nutrendo il sogno di una patria turca. I kemalisti, che da lui prendevano il nome e quasi tutti provenienti come lui dalle forze armate ammutinatesi al sultano, erano stati inviati su suo ordine nei territori occupati per organizzare eserciti di resistenza e prepararsi a dar battaglia. L’abile politica di Kemal aveva saputo suscitare negli animi della popolazione stremata dalla guerra e dall’occupazione un sentimento di rivalsa dai forti connotati nazionalisti, riuscendo a coagulare il consenso degli ex sudditi in cerca d’identità. Allo stesso tempo, aveva strategicamente riconosciuto la nazionalità kurda nella nuova Costituzione di Ankara, così da garantirsi l’appoggio delle tribù kurde dell’est. Turchi e kurdi avrebbero combattuto insieme, e insieme avrebbero governato la patria nascente. Una volta fondato il nuovo Stato, ai kurdi sarebbe stata garantita l’autonomia amministrativa dei loro territori, questi erano i patti. Nel settembre del 1922 quasi tutta la Turchia era stata liberata. All’inizio del 1923 fu formalmente proclamata la Repubblica Turca e Mustafa Kemal ne divenne il primo presidente. Una volta consolidata la sovranità interna e aver raggiunto la legittimazione a livello internazionale, la politica di Kemal verso i kurdi mutò. Alle elezioni per la nuova Assemblea Nazionale turca nessun deputato kurdo fu ammesso alla Camera. Nel 1924 fu emanato il primo decreto che proibiva l’uso della lingua kurda in pubblico, nelle scuole e per ogni pubblicazione; il turco fu imposto come unica lingua ufficiale. Tutte le promesse fatte al popolo kurdo in tempo di guerra furono tradite. Nella polvere di Antep, soldati turchi e kurdi avevano combattuto fianco a fianco, ma mentre i cadaveri dei caduti marcivano ancora sul campo di battaglia, erano stati divisi: gli uni resi eroi, gli altri dimenticati. La città ebbe una menzione speciale per il valore dimostrato, fu aggiunto il prefisso di Gazi, veterano, al nome Antep e l’ideologia nazionalista turca ne fece una delle sue roccaforti. “Ci sono persone in presenza delle quali qualunque verità suona come una menzogna” scriveva Vassilij Grossman nella Russia di Stalin. Voler parlare dei kurdi in Turchia, delle loro storie che non trovano posto nelle cronache ufficiali, fa bruciare le orecchie ai borghesi liberali come ai contadini analfabeti che hanno mandato i propri figli al fronte. Il discorso si arresta, le risposte si affilano tra i denti e diventano risentimento, la ragione si annebbia inquinata dai tentacoli di dichiarazioni di principio, mandate a memoria: “I kurdi non ci sono, puoi trovare solo turchi su quelle montagne”, “Sono morti in tanti per unire la patria, altrettanti ne moriranno per difenderne l’unità”. A guardarlo da vicino, il confine del Kurdistan è una ferita che secerne un fiotto denso e scuro, vischioso. Se vuoi sentirne le voci devi andarle a strappare al silenzio.