giovedì 6 maggio 2010

Il paese dove non siamo - I parte


Strade dell’est, immensi orizzonti e confini militarizzati. Vecchi addormentati su carrettini che incedono lentamente, sognano in una lingua proibita. Lassù, tra le nuvole e i falchi, le colonne di Pêşmerge, i guerrieri “in piedi davanti alla morte”, si fanno strada tra gli sterpi di montagna cantando in marcia, pensando alla casa nel villaggio lontano, alla carne di vitello che mangeranno la sera, alle armi nascoste in una caverna sotterranea. Le polizie di frontiera messe a guardia della spartizione del Kurdistan non sanno che ha più di mille anni, eseguono solo gli ordini fumando astiosamente sigarette di contrabbando, pregando che non li attacchino, almeno non mentre loro sono lì. Perché i kurdi non li pieghi: puoi bastonarli all’infinito, rialzeranno sempre la testa. C’è chi combatte, chi lavora per vie legali a qualcosa che assomigli all’autonomia, chi vive semplicemente, chi dimentica, mentre il tempo li allontana e li cambia, sparsi come sono in quattro stati e in giro per il mondo. Destinati al bilinguismo i kurdi, la loro di lingua e quella del paese che li ha inglobati, stretti nella morsa di cittadinanza e appartenenza. L’Iran i sospetti di simpatie separatiste li appende a un cappio, in Siria ai kurdi non è concessa nemmeno la carta d’identità, in Turchia vogliono sradicarglielo dalla testa. Solo nell’Iraq del nord puoi dire Kurdistan ed essere ricevuto con un sorriso, un abbraccio. Nel governo federale dell’Iraq dal 2005 esiste la regione autonoma del Kurdistan, con il suo parlamento, le sue scuole, il suo esercito. Da quando l’eroe leggendario Mustafa Barzani si mise a capo delle rivolte indipendentiste per essere riconosciuti come cultura e come entità politica, fiumi di sangue hanno continuato a scorrere. Ma oggi, da Erbil a Suleymaniye, la lingua ufficiale è il kurdo.

Una volta sono rimasto per una notte intera a sedere in casa di un amico a Diyarbakir ascoltando un anziano che intonava il dengbêj, racconto cantato che per secoli è stato la forma di trasmissione delle storie dei kurdi fra le generazioni. Dopo essere rimasti assorbiti nei vocalismi suadenti e aspri per ore, gli anziani e i ragazzi intorno erano sfiniti, con il viso sognante. Le donne portarono del cibo in grandi piatti rotondi di ferro, e mentre sorbivamo il tè chiesi al mio amico cosa significava quel racconto, di cosa parlava. Con un’espressione amara e ironica insieme mi disse che non lo sapeva, capiva solo poche parole di kurdo, non lo parlava mai nella sua vita quotidiana. Il vecchio che aveva cantato era suo nonno.



Nel suo rapporto al comando sull’assedio di Antep, il colonnello di brigata francese Marcel Abadie annotava nel 1921: « La popolazione di Antep si compone di Turchi (in grande maggioranza), di Kurdi, di Armeni, di Circassi e di alcuni Ebrei… i Kurdi possono essere considerati come una razza autoctona, il loro tipo differisce sensibilmente dal tipo turco e mongolo, abitano soprattutto i propri villaggi in pianura, salvo alcuni gruppi seminomadi che praticano la transumanza… Nell’insieme i Kurdi costituiscono una razza di guerrieri assai brutali, saccheggiatori all’occasione, estremamente robusti e molto bene armati dai bottini delle razzie ai russi. Questi sognano la creazione di un grande Stato kurdo che inglobi tutti i paesi ad ovest, est e sud dell’Eufrate, ma conviene rimarcare che gran parte delle tribù kurde ha fatto causa comune con i Kemalisti nella lotta contro i Francesi ». In seguito alla prima guerra mondiale e alla firma del trattato di Sèvres, ciò che restava dell’impero ottomano era stato diviso dalle potenze europee in rispettive zone di influenza. Nel 1920, gli inglesi occupavano il nord dell’Iraq, i francesi erano acquartierati nel sud-est anatolico e in Siria, agli italiani spettavano le zone di Adana e Konya. Ad ovest, sulle sponde del mediterraneo, Izmir era caduta sotto i colpi dei greci che avanzavano con un’irresistibile serie di vittorie sul campo, decisi ad annettere parte della Tracia e dell’Anatolia. Costantinopoli e il sultano restavano immobili sotto il controllo delle forze di occupazione. L’occidente si stava giocando a colpi di dadi e di obici le membra ancora vive della “Sublime Porta”. Dal suo quartier generale stabilito ad Ankara, il veterano di guerra Mustafa Kemal paşa preparava la lotta agli invasori nutrendo il sogno di una patria turca. I kemalisti, che da lui prendevano il nome e quasi tutti provenienti come lui dalle forze armate ammutinatesi al sultano, erano stati inviati su suo ordine nei territori occupati per organizzare eserciti di resistenza e prepararsi a dar battaglia. L’abile politica di Kemal aveva saputo suscitare negli animi della popolazione stremata dalla guerra e dall’occupazione un sentimento di rivalsa dai forti connotati nazionalisti, riuscendo a coagulare il consenso degli ex sudditi in cerca d’identità. Allo stesso tempo, aveva strategicamente riconosciuto la nazionalità kurda nella nuova Costituzione di Ankara, così da garantirsi l’appoggio delle tribù kurde dell’est. Turchi e kurdi avrebbero combattuto insieme, e insieme avrebbero governato la patria nascente. Una volta fondato il nuovo Stato, ai kurdi sarebbe stata garantita l’autonomia amministrativa dei loro territori, questi erano i patti. Nel settembre del 1922 quasi tutta la Turchia era stata liberata. All’inizio del 1923 fu formalmente proclamata la Repubblica Turca e Mustafa Kemal ne divenne il primo presidente. Una volta consolidata la sovranità interna e aver raggiunto la legittimazione a livello internazionale, la politica di Kemal verso i kurdi mutò. Alle elezioni per la nuova Assemblea Nazionale turca nessun deputato kurdo fu ammesso alla Camera. Nel 1924 fu emanato il primo decreto che proibiva l’uso della lingua kurda in pubblico, nelle scuole e per ogni pubblicazione; il turco fu imposto come unica lingua ufficiale. Tutte le promesse fatte al popolo kurdo in tempo di guerra furono tradite. Nella polvere di Antep, soldati turchi e kurdi avevano combattuto fianco a fianco, ma mentre i cadaveri dei caduti marcivano ancora sul campo di battaglia, erano stati divisi: gli uni resi eroi, gli altri dimenticati. La città ebbe una menzione speciale per il valore dimostrato, fu aggiunto il prefisso di Gazi, veterano, al nome Antep e l’ideologia nazionalista turca ne fece una delle sue roccaforti. “Ci sono persone in presenza delle quali qualunque verità suona come una menzogna” scriveva Vassilij Grossman nella Russia di Stalin. Voler parlare dei kurdi in Turchia, delle loro storie che non trovano posto nelle cronache ufficiali, fa bruciare le orecchie ai borghesi liberali come ai contadini analfabeti che hanno mandato i propri figli al fronte. Il discorso si arresta, le risposte si affilano tra i denti e diventano risentimento, la ragione si annebbia inquinata dai tentacoli di dichiarazioni di principio, mandate a memoria: “I kurdi non ci sono, puoi trovare solo turchi su quelle montagne”, “Sono morti in tanti per unire la patria, altrettanti ne moriranno per difenderne l’unità”. A guardarlo da vicino, il confine del Kurdistan è una ferita che secerne un fiotto denso e scuro, vischioso. Se vuoi sentirne le voci devi andarle a strappare al silenzio.



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