Gaziantep è una città senza inizio e senza fine. Come la sua storia. Antichissimo insediamento umano, passata attraverso molte mani, i destini di popoli diversi sono addossati gli uni agli altri come i morti in una fossa comune. La memoria ha molte lingue, che non si capiscono a vicenda. L’ultimo dei suoi anziani ne ha viste così tante che gli è rimasto solo un dio a cui chiedere conto del senso di tutto ciò. E la velocità del cambiamento non fa che aumentare. Gaziantep oggi, uno dei centri produttivi e commerciali più importanti della Turchia. Sul suo territorio sorgono quattro agglomerati industriali di piccole e medie imprese che ne fanno l’economia più dinamica e in espansione dell’est. I settori tessile e alimentare guidano la produzione, e sono fonte di occupazione in misura di poco inferiore alle attività di agricoltura e pastorizia, radicate nel territorio e ottimizzate grazie a macchinari e ingegneri. Le famose “fabbriche”, promessa di lavoro e dignità per gli eserciti di braccia affamate in tutti i paesi con un’economia emergente, ci sono. Qui e non a Diyarbakir, non a Şirnak, non ad Hakkari, zone a maggioranza kurda afflitte dai combattimenti e da un pregiudizio latente che porta alla conseguente sfiducia degli investitori. Gaziantep invece gode di buona fama, non solo per i pistacchi e il cibo ma anche per essere fedele alle direttive kemaliste, almeno superficialmente. L’ultimo attentato, trenta morti e una stazione di polizia distrutta, risale a più di dieci anni fa. Attualmente, viene spesso citata come il simbolo della crescita economica turca. La città è anche coinvolta in uno dei più grandi piani regionali di investimento al mondo, il GAP (Guneydoğu Anadolu Projesi), un vasto progetto in fase di realizzazione che prevede la costruzione di ventidue dighe sul Tigri e l’Eufrate, nell’Anatolia sudorientale, per la produzione di energia elettrica e per favorire l’irrigazione di aree desertiche. Altre categorie di intervento del piano consistono in investimenti per la valorizzazione culturale di questi territori in chiave turistica. Scopo del governo, oltre a quello di attirare capitali stranieri, è risollevare il livello di vita nelle aree dell’est del paese, storicamente considerate anello debole della società e dell’economia. Sarà garantita occupazione e inclusione sociale, dicono i politici da Istanbul e da Ankara. Il miraggio di questa inclusione continua ad attirare a Gaziantep masse di immigrati dai villaggi e dalle campagne. La popolazione è aumentata vertiginosamente in poco più di cinquant’anni: dai circa trecentomila abitanti della metà del secolo scorso, si è arrivati agli oltre milione e mezzo attuali, secondo cifre ufficiali, in realtà molti di più. Non è solo il fascino della metropoli in crescita, con le sue case all’europea, i pub dove bere birra e i centri commerciali a cinque piani, a fungere da magnete. Con l’organizzazione industriale del lavoro agricolo l’economia dei villaggi e degli insediamenti remoti è stata alterata, causando un progressivo impoverimento. L’ondata della modernizzazione ha sconvolto la vita di contadini e pastori, diventati stranieri a casa propria, fossili viventi, nonostante siano ancora la maggioranza. Un ulteriore processo che va avanti dalla fondazione della Repubblica è lo sfollamento degli abitanti di interi villaggi dell’est da parte dell’esercito. Nella prima metà del novecento, le operazioni furono la risposta alle continue rivolte al potere repubblicano, e vennero attuate per ridistribuire i kurdi in tutta la Turchia così da fiaccarne l’unità. I trasferimenti di massa interessarono anche l’altra parte del paese: dall’ovest il governo centrale inviò in tutti gli uffici e le scuole dell’est funzionari con le loro famiglie che parlavano solo il turco, per insegnare a rivolgersi allo Stato con la dovuta lingua. Tra gli anni ottanta e novanta, invece, migliaia di villaggi kurdi sono stati rasi al suolo al fine di sottrarre il sostegno popolare, spontaneo o coatto, ai gruppi guerriglieri del PKK (partito dei lavoratori del Kurdistan), formazione politica paramilitare che rivendica diritti e autonomia per i kurdi, e che da trent’anni ingaggia con le istituzioni turche una guerra interna al paese. Alle imboscate e alle mine dei guerriglieri, l’esercito risponde con rappresaglie e bombardamenti, nel tentativo di stanare il PKK dalle montagne al confine con l’Iraq. Ad oggi, si contano più di quarantamila morti tra scontri e attentati. La guerra, la povertà e le deportazioni hanno fatto crescere a dismisura le principali città turche, trasformandole in mostri proteiformi di infinite periferie costruite da selvaggi palazzinari. Istanbul, con una popolazione che supera i quindici milioni di abitanti, di cui almeno due milioni sono kurdi, è il simbolo di questo processo incontrollato. Anche Gaziantep, nelle sue estreme propaggini, si espande in maniera disordinata: palazzi popolari sono sparsi come un gregge nel paesaggio lunare di detriti e pascoli. Lo spazio per ora c’è, e viene macinato senza tregua. In altre zone della città, arrampicati sulle colline, i più vasti ghetti kurdi, fatti di miseri cubicoli o semplici baracche, sono il contraltare alle conquiste economiche di una classe media in lenta crescita, che simboleggia l’aspirazione massima di status sociale per la maggioranza dei diseredati.
« Ricordati, nell’est troverai solo tre cose: polvere, sporcizia e ipocrisia » mi dice il professor Nuri seduto alla scrivania del suo studio. Di un’età indecifrabile, non anziano e non più giovane, media statura, fisico asciutto, i suoi capelli castani virano al grigio fumo con delle macchie bianche come latte, ha labbra sottili che talvolta sorridono ma come per convenzione, senza forza, senza allegria. Insegna sociologia all’università pubblica di Gaziantep da una decina d’anni, è kurdo originario di Kilis, un villaggio sul confine siriano circondato da campi minati. Mi invita spesso a bere il caffè che si fa su un fornelletto, una sua passione. Non il caffè turco, ci tiene a precisare, ma quello lungo e acquoso di una macchina americana. Alle pareti, riconosco il volto familiare di Gramsci in una foto in bianco e nero. Ci sono anche Adorno, Balzac, Rousseau e Yashar Kemal. La foto di Atatürk, onnipresente in tutti gli uffici pubblici, qui manca, e questa assenza parla da sola. Sul muro opposto, un poster con il disegno di una donna che balla il flamenco in una sinfonia di colori. Nuri mi parla spesso di quella volta che è stato in Spagna per tenere una conferenza sui villaggi rurali in medio oriente, con una punta d’orgoglio. Gaziantep, periferia di un paese che considera provinciale, gli sta stretta. A partire però non ci pensa, qui ha famiglia, due figli che crescono e i suoi studi, i compiti che si è dato. Dietro quegli occhi grigi screziati di verde ci sono amare conclusioni e costatazioni fredde sullo stato delle cose, maturate a furia di consumare scarpe in giro tra l’asfalto delle città e gli sterrati dei villaggi. Unisce le dita davanti al volto e mi osserva di sottecchi, immerso nel calcolo silenzioso di chi è abituato a giudicare chi ha di fronte, prima di parlare. Con me può aprirsi. « Non te lo diranno all’università, ma sappi che la ruota della civiltà gira col sangue. Il perché è semplice: un popolo, una cultura, ha bisogno di uno Stato per sopravvivere. Se manca lo Stato una cultura diversa, minoritaria, è considerata deviante, ed è destinata a scomparire. Creare uno Stato non vuol dire altro che uccidere o piegare chi vi si oppone. Annullarli, come fanno qui da cento anni con i kurdi… i kurdi… le idee capaci di portare a uno Stato non nascono nel mondo rurale, lì la vita si ripete identica a sé stessa, fuori dalla storia. E noi è da lì che veniamo, dalle campagne, la coscienza di popolo è arrivata solo quando hanno deciso la nostra rimozione. Nell’ottocento le tribù kurde si facevano la guerra tra loro per un pezzo di terra… Probabilmente vivere isolati ha permesso di conservare la lingua e i costumi, la chiusura mentale in fondo è anche un metodo di sopravvivenza, ma oggi è la nostra condanna ». Percepisco la rabbia di Nuri aleggiare nella stanza. Una rabbia lucida che non risparmia niente alle due parti, come un orfano cresciuto che accusa genitori e tutori del mondo che gli hanno lasciato e che non ha fatto in tempo a cambiare. « Sai cos’è l’identità turca? il volto del potere. E il potere non è il mezzo, ma il fine. L’identità deve essere fabbricata ed esaltata per assicurarsi l’obbedienza, la gente deve amare il fatto di essere turca e nient’altro… Un meccanismo messo in moto dal fondatore di questo Stato. Ora, il potere si afferma sull’uomo in due modi: con il trionfalismo e l’umiliazione. Per capire il trionfalismo prendi la memoria nazionale, che di storico non ha niente. Un campionario di eventi fatto di pochi ricordi e molto oblio, alcune cose ripetute all’infinito e altre completamente rimosse… Ammazzavano la metà di un villaggio e gli cambiavano il nome per farlo dimenticare, come hanno fatto a Dersim che oggi si chiama Tunceli… Mentre invece le battaglie di liberazione, la morte dei martiri, la bandiera, la vita di Atatürk sono la religione che tutti devono professare. Ce la insegnano fin dall’infanzia, i bambini ripetono a scuola “ne mutlu turkum diyene” (felice colui che può dirsi turco, la più famosa sentenza di Atatürk), lo leggono sulle montagne e sulle strade, e alla fine finiscono per crederci! ». Il caffè nella tazza è finito, Nuri si affretta a riempirla di nuovo. Va a dare uno sguardo nel corridoio, poi chiude la porta a chiave. I nostri occhi si incontrano, complici, e torna a sedersi. Non vuole essere disturbato o non vuole che altri sentano. « L’umiliazione è più pratica e più sottile. Hanno reso il sentirsi kurdi un handicap sociale. Kurdo equivale a primitivo, sottosviluppato. Nessuno ti prende a lavorare se parli solo kurdo, e se vuoi studiare, i libri che trovi nella nostra lingua si contano su una mano. Sono le stesse famiglie kurde che vogliono far dimenticare ai loro figli da dove vengono, e la cosa terribile è che lo fanno per il loro bene. Se sei fiero di essere kurdo, sei un nemico della patria, perché sicuramente stai cospirando per dividerla, sei dalla parte dei terroristi. La propaganda governativa ha fatto crescere più di una generazione nell’odio, i giovani turchi di oggi collegano automaticamente la lingua kurda alle bombe e ai soldati uccisi, provano fastidio se la sentono per strada. Cosa resta da fare a un kurdo che voglia integrarsi? Lasciarsi il passato alle spalle e fare propri i simboli della Repubblica. Si chiama assimilazione e mentre ci sei dentro neppure te ne accorgi, lo fai per sopravvivere… Sono stati abili, separando i kurdi dal passato li hanno divisi nel presente ». Dico a Nuri che l’attuale governo dell’AKP, il partito filo islamico, sembra intenzionato ad aprirsi alle rivendicazioni dei kurdi di maggiori diritti culturali. Il “patto di fratellanza nazionale” nei confronti delle minoranze e il riconoscimento dell’esistenza di una “questione kurda” sono dei passi in questa direzione. Anche l’apertura del primo canale televisivo kurdo lo scorso anno e l’abrogazione delle leggi contro la pubblicazioni di giornali e musica in kurdo lasciano ben sperare. « Non ho molto da sperare. La tensione si è allentata, è vero, ma le condizioni della nostra esclusione, del lento sparire a cui siamo destinati, non sono cambiate. Questo paese, dalla sua nascita, è sotto il controllo dei militari, che non cederanno il potere facilmente. C’è la Repubblica, ma fino al 1950 c’è stato il partito unico. Dopo, anche quel poco di dialettica democratica è stata per tre volte interrotta da colpi di stato, e nel 1980 l’esercito ha riscritto la costituzione. Esistono ancora leggi come l’articolo 301 che punisce l’oltraggio alla patria e all’identità turca, in pratica l’autocritica è bandita… Anche la legge costituzionale contro chi fomenta il separatismo è un pilastro di quest’ordine. Il partito kurdo del DTP è stato chiuso per presunti contatti con il PKK, buon lavoro! Ora sulla piazza hanno lasciato solo gli estremisti... Lo stesso clima di sospetto e timore circonda chi fa informazione o semplicemente manifesta. I giornalisti scomodi li sbattono dentro con un pretesto. Non si fanno problemi neppure coi ragazzini, sai quanti quindicenni affollano le carceri? E questo sarebbe un paese che aspira ad entrare in Europa? L’AKP sta facendo i suoi interessi, vuole allargare il più possibile la sua base elettorale. In fondo rappresenta una borghesia nevrotica che il pomeriggio va in moschea a fare il namaz e la sera guarda la tv bevendo birra… L’AKP sta tirando su un nuovo centro di potere collocando i suoi uomini nei luoghi che contano e screditando i nemici. Puzzano di patriarcato, difendono un’ideologia islamica che attira consensi ma gli interessa solo il denaro… c’è troppa ipocrisia. Troppa ». Nuri guarda fuori alle nuvole sparse. Il pessimismo di quest’uomo è forse realismo dato dall’aver integrato con il sangue e il dolore l’arte di giudicare. È stato tenente dell’esercito per sette anni prima di diventare professore, inviato nell’est a combattere i “terroristi”. Ne parla mal volentieri, e solo una volta sono riuscito a cavargli un frammento di ricordo: « … Sulle montagne ti senti sperduto, quegli spazi enormi, la neve, ti attacchi agli ordini e ai compagni. Io ero giovane, capivo confusamente che stavo tradendo i kurdi, ma avevo bisogno di dimostrare di essere turco. Ho combattuto e ho visto… le torture la sopraffazione, ho visto la verità. Il nostro nemico non era da meno. In guerra la prima cosa a morire sono gli ideali… Abbiamo fatto cose orribili laggiù… alla fine ho disprezzato i miei soldati, e anche me stesso. Finché campo non me lo perdonerò ». Non so se è stato il caffè o le sue parole a farmi venire una tachicardia martellante. Mi sento soffocare, le pareti intorno si restringono. Devo avere la faccia bianca, perché Nuri mi da una pacca sulle spalle e dice di uscire. Fumiamo una sigaretta all’aperto, con gli studenti che affollano i vialetti dell’università. Restiamo lì per un po’, senza più parlare, solo guardandoci intorno.
Bellissimi entrambi i racconti, si termina la lettura con l'ansia che sale. non è difficile immaginarti a scrutare chi ti sta attorno con sguardo sospettoso e occhio partenopeo.
RispondiEliminaNon è fuori luogo un rimando a "Neve", il libro di Pamuk che ben ha descritto le atmosfere di periferie dell'est, la vita di provincia alla ricerca di affermazione e le sue motivazioni, tra Stato forte ed identità repressa.
Un abbraccio